Opinioni & Commenti

Morti sul lavoro: le leggi non bastano, ci vuole una cultura della sicurezza e della vita

di Paolo Tarchidirettore Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro

A pochi giorni dai drammatici eventi nell’acciaieria torinese della ThyssenKrupp dove avevano trovato la morte ben sette operai, così si esprimeva il card. Angelo Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente di gennaio: «Davvero il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni di lavoro tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini. Sono drammi che le nostre comunità parrocchiali conoscono uno ad uno e a cui i nostri sacerdoti sono vicini».

Gli incidenti e le morti sul lavoro costituiscono oggi una nuova emergenza del nostro paese. I dati del 2° rapporto dell’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (Anmil) parlano di un morto ogni sette ore con circa un milione di incidenti l’anno. Se è vero che dagli anni ’60 a metà degli anni ’80 i morti sul lavoro sono scesi da oltre 4000 a 1500 l’anno, tuttavia la situazione sembra essersi fermata ad uno zoccolo duro che appare insuperabile. Ripetutamente il presidente della repubblica Giorgio Napoletano ha richiamato l’attenzione delle forze istituzionali e sociali su questo dramma nazionale, invitando a sentirne tutto il peso umano e sociale, a non limitarsi alla denuncia, a trovare dei rimedi in una strategia complessiva che vede i vari soggetti coordinati e in spirito di collaborazione.

Eppure la legislazione italiana fin dal 1994 con i Dlgs 626/94 si era dotata di una buona legge che metteva al centro il rispetto della vita della persona coniugando sicurezza ed organizzazione del lavoro, obbligando i datori di lavoro alla valutazione dei rischi in una logica partecipativa che si proponeva di coinvolgere tutti i soggetti interessati.

Il testo unico approvato in questi giorni integra la legge 626/94. Precisa gli obblighi dei datori di lavoro, l’importanza dei controlli (pensiamo al lavoro nero e agli appalti al più alto ribasso) e del coordinamento fra i vari soggetti (ispettori, Asl, vigili del fuoco…), la formazione e la prevenzione, l’istituzione del rappresentante dei lavoratori a livello territoriale, gli incentivi e gli aiuti alle imprese che lavorano rispettando le leggi  della sicurezza. Non bastano però buone leggi, occorre una cultura della sicurezza sul lavoro diffusa e patrimonio di ogni persona. Occorre investire in informazione e formazione anche nelle piccole e medie imprese che rappresentano in Italia oltre il 90% delle aziende. Convincersi che la sicurezza conviene: conviene alla persona che lavora, conviene all’impresa, conviene alla collettività. Investendo in sicurezza ad esempio 1,14 miliardi di euro, si risparmierebbero costi sociali per 10 miliardi. È necessario liberare le ingenti risorse (13 miliardi disponibili presso l’Inail) per la formazione nei posti di lavoro, per la formazione nelle scuole e per il sostegno alle famiglie colpite da incidenti gravi o da morti sul lavoro (le rendite attualmente sono del tutto insufficienti).

Quante famiglie, quanti sacerdoti e comunità cristiane sono ogni giorno coinvolti e travolti da questi drammatici eventi nella loro cura pastorale e nel delicato quotidiano accompagnamento. Occorre andare oltre l’emotività, sentendo la responsabilità pastorale di promuovere la vita in ogni momento, preoccupati di un lavoro dignitoso per ogni persona e solidali con chi troppo spesso è dimenticato e ulteriormente umiliato nel non vedere soddisfatti i propri diritti di risarcimento.