Opinioni & Commenti
Moro 30 anni dopo: il ruolo delle Br toscane
di Giovanni Spinoso
Il rapimento di Aldo Moro e il sacrificio dei 5 uomini della sua scorta il 16 marzo 1978 colse del tutto impreparati gli apparati investigativi dello Stato, tanto è vero che non disponevano all’epoca un attendibile elenco di simpatizzanti e presunti militanti delle Brigate Rosse, divisi per regione, ma sgangherate «dispense» con un’accozzaglia di nomi dove si mescolavano pacifisti, verdi, iscritti a partiti di sinistra e qualche esponente di gruppi extraparlamentari. L’ultima «Risoluzione della Direzione strategica» delle Brigate Rosse, datata febbraio 1978, che annunciava la nuova campagna contro la Dc, vista non più come articolazione del «cuore dello Stato», ma come «forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato» , era stata letta da pochi inquirenti e forse molto distrattamente. In Toscana la campagna Br contro la Dc già nel 1977 era stata punteggiata da strani attentati a sedi del partito in alcune città e alle auto di suoi esponenti provinciali. I brigatisti apparivano abbastanza disorientati sulle dinamiche politiche provinciali, dando la sensazione di sapersi documentare soltanto con un artigianale spoglio dei ritagli dei quotidiani e qualche «confidenza» ottenuta di «rimbalzo» tramite persone che avevano contatti a più largo raggio di loro.
Quando Aldo Moro il 6 aprile 1977 pronunciò a Firenze un importante discorso, analizzando il recente fenomeno del terrorismo, parlò della violenza armata con un linguaggio inusitato . È probabile che tra la folla ad ascoltarlo quella mattina nell’auditorium del Palazzo dei Congressi di Firenze ci fosse anche qualcuno che ha poi fornito appoggio logistico in Toscana alle «colonne Br» di Torino, Roma, Milano e Genova , durante i 55 giorni del sequestro.
Un piccolo ma significativo indizio di questo appoggio toscano è dato da una circostanza precisa: sulla Renault rossa fatta ritrovare dalle BR il 9 maggio 1978 in via Caetani a Roma con il corpo di Aldo Moro nel portabagagli, c’erano dei contrassegni assicurativi emessi dalla Compagnia «Assurances Nationales» che risultano far parte di uno stock rubato dalle Br in provincia di Pisa. Contrassegni provenienti dallo stesso furto furono trovati dalla Digos di Firenze il 19 dicembre 1978 nell’auto sulla quale vennero bloccati nel viale Fratelli Rosselli 4 brigatisti armati. I quattro che facevano parte del Comitato rivoluzionario toscano delle Br erano Giampaolo Barbi, Paolo Baschieri, Dante Cianci e Salvatore Bombaci.
Era stato proprio l’architetto Giampaolo Barbi ad acquistare a Firenze nel gennaio 1978 con i soldi fornitigli dall’organizzazione delle Brigate Rosse un appartamento nel quartiere di Rifredi, in via Barbieri. Studiosi del caso Moro e lo stesso ex senatore Giovanni Pellegrino, che ha presieduto la Commissione interparlamentare sulle stragi in Italia, hanno puntato l’attenzione su questa abitazione fiorentina, ipotizzando che qui si siano riuniti alcune volte, i membri della «direzione strategica» delle Br durante il sequestro Moro.
Delle riunioni a Firenze ne hanno parlano gli stessi brigatisti. Ma senza dare indicazioni per la localizzazione dei luoghi. Elementi certi che si tratti del covo di via Barbieri non ci risultano. E le «ammissioni» fatte dallo stesso Salvatore Bombaci, sulla presenza in quell’appartamento di un ciclostile, potrebbero essere lette oggi come un depistaggio per distogliere la curiosità su altre strutture logistiche delle Br utilizzate in quel periodo a Firenze, a supporto dei latitanti Barbara Balzerani, Prospero Gallinari e Mario Moretti.
Certamente appare singolare che Salvatore Bombaci avesse il domicilio, all’atto dell’arresto, nell’abitazione del professor Giovanni Senzani in Borgo Ognissanti a Firenze e che lo stesso Senzani, pochi mesi prima, durante il sequestro Moro, fosse stato consultato come esperto da apparati dello Stato per dare lumi sui possibili sbocchi del sequestro Moro.
C’è chi è convinto che a suggerire una serie di domande per gli interrogatori di Moro, rinchiuso nella «prigione del popolo» a Roma fosse stato proprio Giovanni Senzani da Firenze. Ma anche questa è una supposizione senza riscontri di alcun tipo.
Su personaggi di Firenze si erano accesi diversi riflettori, ora per suggerire l’ombra di un «Grande Vecchio», ora per indicare un possibile intermediario per il rilascio dello statista prigioniero delle Br. E così è stata scandagliata la vita di un noto musicista. Si è mormorato il nome di un illuminato professore universitario, naturalmente con tanto di bella villa sulle colline fiorentine. E intanto i giorni passavano. Quando poi il 5 maggio uscì il comunicato delle Br, che annunciava la decisione presa, quella di eseguire la sentenza di condanna a morte di Moro, molti credettero ci fosse ancora chissà quanto margine di tempo per «cominciare a trattare». Pochi avevano capito che quella decisione presa, a votazione, non senza contrasti, dai componenti delle 4 colonne Br, non era appellabile. Lo capì subito Renato Curcio, rinchiuso nel carcere di Torino. La mattina del 6 maggio Curcio fece sapere agli emissari di Bettino Craxi, rappresentante il «partito della trattativa», che quel gerundio del comunicato («concludiamo eseguendo») era chiaro: le BR avrebbero sicuramente ucciso Moro. Curcio non era d’accordo. E aggiunse, mettendo sull’avviso i suoi interlocutori: dopo Moro, ci sarà una lunga scia di sangue ad opera delle Brigate Rosse. Fu così.