Lucca

Momento importante per dieci rom e sinti lucchesi

Erano presenti anche due rappresentanti della San Vincenzo, che sostengono le due comunità nei loro bisogni quotidiani, che vanno dal cibo all’assistenza scolastica, affiancando gli educatori comunali e gli assistenti sociali.Mons. Giannotti ha detto nell’omelia che «Crescere è come camminare per le strade del mondo», parole, come quelle dei canti, che erano ben adatte a persone che hanno una cultura nomade. I dieci ragazzi, però, sono nati tutti a Lucca e vi vivono dalla nascita, quindi, almeno per loro non si può parlare di nomadismo, e tuttavia, pastoralmente, fanno parte di una «parrocchia personale», cioè non legata a un particolare territorio e a registri d’archivio.

I ragazzi e le loro famiglie vivono, i Sinti, piemontesi imparentati con lombardi ed emiliani, alla Scogliera, al campo nomadi sul fiume Serchio, mentre i Rom, al campo vicino al cimitero di Sant’Anna. Sebbene i ragazzi e le loro famiglie vivano lì da decenni, non sono seguiti pastoralmente dalle parrocchie del loro territorio, Sant’Anna e San Marco, ma da moltissimi anni da padre Luciano Meli, Cappuccino, il quale celebra per loro, al campo, la Messa di Natale e di Pasqua, mentre i sacramenti dell’iniziazione cristiana sono conferiti nella chiesa del suo convento.

Anche i Rom romeni, ortodossi, si rivolgono a lui per la benedizione della casa/roulotte e per il Battesimo. La diocesi nel suo insieme e le singole parrocchie sono chiuse alle varie minoranze e le ignorano, nonostante esse condividano la stessa «legge» e lo stesso progetto di vita, e per questo motivo – direbbe Cicerone – noi e loro siamo uno stesso popolo!Padre Luciano racconta che molti anni fa vivevano al campo nomadi quattro o cinque suore francescane; ora, lui è l’unico che ha contatti con gli abitanti secondo lo stile della relazione interpersonale, che comprende la conoscenza delle difficoltà dei suoi «parrocchiani», ma anche la formazione religiosa, oltre all’amicizia. È uno stile sempre vincente, non solo fra i cosiddetti nomadi. Padre Luciano dice che la loro religiosità ha i suoi momenti importanti nelle grandi solennità e in eventi naturali come la nascita e la morte; tuttavia, sono i genitori a chiedere i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Fino a una trentina di anni fa, i ragazzi «nomadi» arrivavano fino alla Prima Media, ora invece frequentano fino alla Terza; i genitori hanno difficoltà a trovare un lavoro, come accade a molte persone, ma per loro c’è l’aggravante di vivere al campo nomadi e di essere «zingari»; qualcuno si arrangia con la raccolta del ferro o con un po’ di assistenza familiare.Nonostante la enorme diversità culturale rispetto ai «gagè», a chi non appartiene alla loro etnia, compaiono fra di loro situazioni, fino a pochissimo tempo fa impensabili, come l’omosessualità. L’amministrazione comunale vorrebbe fornire il campo nomadi con casette di legno per rendere più comodo l’abitare. Il progetto, apparentemente positivo, in realtà deriva dal fatto che non può più essere concessa l’abitazione in roulotte, e le casette di legno sarebbero una soluzione per il Comune per mettersi in regola. Però, nelle casette sarebbero inviati non solo gli attuali residenti del campo nomadi, ma anche altri irregolari, e il campo si trasformerebbe in un ghetto del disagio, della miseria e dell’emarginazione.La comunità cristiana non può lasciarsi abbagliare dal luccichio della facciata, ma deve guardare dietro per scoprire la mancanza di rispetto della dignità delle persone, che hanno bisogno di integrazione, accoglienza.Purtroppo, manca un progetto sia da parte civile sia da parte delle parrocchie.

Foto d’archivio.