Opinioni & Commenti
Missionari uccisi, i nuovi volti del martirio
di Gerolamo Fazzini
condirettore di Mondo e Missione
«Mi son preso la briga di scorrere l’elenco dei sant’uomini e sante donne scannati in giro per il mondo: nella stragrande maggioranza dei casi si è trattato d’omicidi a scopo di rapina. ‘Ndo sta il martirio?». Così, in modo a dir poco provocatorio, sul sito www.indymedia.org, punto di riferimento della galassia no-global, tal «Kaino» commentava, tempo fa, il martirologio dell’agenzia vaticana Fides.
A una lettura superficiale «Kaino» ha ragione. Sono relativamente rari i casi di martirio «classico», ossia come reazione al rifiuto di abiurare la fede cristiana. Per contro, se scorriamo l’elenco dei missionari uccisi negli ultimi anni vedremo che spesso si tratta di morti avvenute in contesto di guerra civile, di omicidi legati a tentate rapine o rapimenti, addirittura a sparatorie casuali. Ma per questo possiamo forse pensare che il martirio sia un residuo del passato? Oggi, in giro per il mondo, la testimonianza cristiana fino al dono della vita questo è il significato più proprio di «martirio» assume molti nuovi volti, non meno evangelici.
Beninteso: c’è senza dubbio un martirio legato all’ostilità anti-cristiana. Penso a Paesi a maggioranza islamica come Pakistan, Indonesia, Egitto o al Sud delle Filippine. È in Paesi islamici Turchia e Somalia che si sono consumati i casi più recenti di martirio di missionari italiani, don Andrea Santoro – nella foto – e suor Leonella Sgorbati. Pure in India (dove l’induismo è la religione predominante) serpeggia un pericoloso estremismo, di natura politica più che religiosa, che semina violenza e morte. Ma, se dessimo un’occhiata alle statistiche, scopriremmo, con sorpresa, che il Paese con il più alto numero di cattolici ammazzati (vescovi, preti e laici) è la Colombia, dove i battezzati sfiorano il 90%.
Pensare di capire il martirio concentrandosi sul coltello o sulla pistola che uccidono, chiedendosi «per colpa di chi» i cristiani muoiano, serve a poco. È quel che fanno di solito i media. Molto più fecondo è indagare su cosa si muove nella testa e nel cuore dei martiri e domandarsi «in nome di Chi» abbiano scelto di esporsi al pericolo della vita.
In occasione della giornata di preghiera per i missionari martiri (24 marzo, memoria dell’uccisione del vescovo Oscar Romero del Salvador), ci viene in aiuto la bellissima frase di una suora spagnola ammazzata in Algeria dai fondamentalisti islamici del Gia. Scriveva: «Non possono sottrarci le nostre vite, le abbiamo già donate». Ebbene. Il martire cristiano non è un eroe in cerca della «bella morte» di dannunziana memoria: non ha a cuore la gloria personale ma quella del suo Signore. Non è nemmeno un fallito che vede stroncati i suoi progetti, improvvisamente, perché si è venuto a trovare «nel posto sbagliato al momento sbagliato». No. Il martire è una persona pienamente realizzata perché, prima ancora di versare il suo sangue, ha consegnato la sua esistenza a Dio e ai fratelli, esponendosi consapevolmente al rischio di pagare col sangue. Se così stanno le cose, non possiamo non guardare ai martiri come a persone autenticamente felici. Non della felicità «che dà il mondo», ma di quella speciale beatitudine additataci dal Rabbì che scelse la croce per cattedra.