Vita Chiesa
Migranti: don Luis Okulik (Ccee), «questo corto circuito della classe dirigente europea è preoccupante»
«La questione è diventata sempre più complessa proprio perché, a livello di politica europea, ci sono differenze difficilmente conciliabili». Con questa «chiave di lettura» tutta europea, don Luis Okulik, segretario della Commissione affari sociali del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali europee), commenta lo sbarco a Pozzallo di 450 migranti, rimasti in mare in attesa di un approdo autorizzato. «Questo fa sì – prosegue il sacerdote nella sua analisi – che le scelte che vengono fatte probabilmente tendono a rompere questo stallo. Tuttavia forse bisognerebbe mettere più attenzione sul fatto che qualsiasi scelta politica venga fatta, va a toccare la vita di persone che arrivano già con alle spalle esperienze di sofferenza molto grande». E proprio di migrazione in Europa e del modo di comunicarla all’opinione pubblica, si è parlato a Stoccolma all’incontro annuale dei vescovi e dei delegati responsabili per la pastorale dei migranti delle Conferenze episcopali in Europa. Raggiunto telefonicamente dal Sir a conclusione dell’incontro, don Okulik lancia subito una proposta: «Guardare questa realtà senza perderci d’animo ma anche senza abituarci a quello che sta accadendo. L’abitudine potrebbe portare anche a un’indifferenza che non è propria dei cristiani».
Un’indifferenza o, piuttosto, un’ignoranza delle realtà da cui vengono i migranti?
«Tutte e due le cose. Vedere ripetutamente un fatto che accade nella cultura moderna, spesso porta anche all’indifferenza perché perde l’aspetto della novità. Spesso non si ha una visione completa del fenomeno. Si pensa che la questione delle migrazioni riguardi soltanto il momento dello sbarco in Europa, dimenticando tutto quello che accade, a volte per anni, prima che una persona possa arrivare sulle coste del Mediterraneo. Sono persone, cioè, che arrivano da Paesi che sono praticamente frammentati, o con sistemi politici collassati o ancora da contesti di violenza molto forte, che perdurano da molto tempo. A questo ultimamente bisogna aggiungere anche tutti i cambiamenti climatici che hanno forzato tanti popoli a spostarsi proprio perché la terra non produce più niente».
Alla lettera del premier Conte, che chiedeva all’Ue di occuparsi di una parte delle 450 persone sbarcate a Pozzallo, il premier ceco Andrej Babis, ha scritto su Twitter: «Un tale approccio è la strada per l’inferno». C’è una parte di Europa che continua ad alzare muri.
«Non ho letto il tweet. Certamente questo corto circuito della classe dirigente europea è preoccupante perché dimostra che c’è una prontezza nell’accentuare le proprie posizioni, a far vedere da che parte è ciascuno. Quello che si vede di meno, è l’impegno ad affrontare compiutamente e gestire questa situazione. Sembra essere caduti oggi, in Europa, in una sorta di sonnolenza della coscienza che non permette più di capire la drammaticità di questo fenomeno umano che colpisce non solo l’Europa ma milioni di persone in tutto il mondo. Finché non si capirà che la visione deve essere molto più ampia e integrale, molte delle soluzioni che vengono presentate, avranno un corto respiro perché mirano ad affrontare l’emergenza ma non riescono a toccare veramente le cause».
E proprio in questi giorni, i responsabili delle migrazioni delle Conferenze episcopali europee si sono incontrati a Stoccolma. Di cosa avete parlato?
«Negli ultimi anni abbiamo notato che emergeva sempre più spesso la questione della comunicazione. Ci siamo chiesti come i mass media raccontano il fenomeno delle migrazioni e come si crea l’opinione pubblica, spesso molto negativa riguardo a questa questione. Ma, allo stesso tempo, ci siamo confrontati anche su come comunicare in modo più possibile positivo il lavoro che si fa. La Chiesa cattolica lavora sulle migrazioni da tempi memorabili. E se non viene comunicato ciò che si fa sul campo, si rischia d’influire in un modo, alle volte, ambivalente, se non negativo, sulle stesse comunità cristiane».
Sulla paura verso il fenomeno migratorio, si stanno costruendo strategie politiche. Come fare contro-informazione?
«Non è compito della Chiesa contrastare ogni intervento politico. Ne tiene conto, perché è importante. Essendo sul campo, però, la Chiesa cattolica sa che la realtà che viene presentata, è sempre molto limitata. Faccio qualche esempio: si è parlato per giorni della nave Aquarius e dello sbarco in Spagna ma nessuno ha considerato che, mentre quelle persone arrivavano a Valencia, c’era un ingresso di circa 2.500 persone attraverso Ceuta. O che mentre si discute oggi di questi 450 migranti a Pozzallo, il flusso tra la frontiera turca e greca è sostenuto. Per cui la realtà è molto più ampia e molto più complessa. Chi lavora in parrocchia sa delle perplessità che esistono anche in molti dei nostri fedeli. È una paura comprensibile, che deve essere ascoltata e accompagnata. Quello che si cerca di fare di fronte all’onda di negatività che accompagna questo fenomeno, è semplicemente far conoscere quello che si fa, quindi raccontare le storie che ci sono dietro ma soprattutto favorire occasioni d’incontro. Sono spazi che umanamente cambiano la prospettiva».
Perché?
«Incontrando i migranti ci si rende conto innanzitutto della sofferenza umana che può segnare per sempre la vita della persona. Incontra uno sguardo di paura e d’incertezza per il futuro. Chi tende loro una mano, è spesso l’unico salvataggio umano che trovano in un cammino che è ancora lungo. La Chiesa si sforza di mantenere questa umanità che ha sempre caratterizzato il suo lavoro anche di assistenza. C’è poi ovviamente anche lo sforzo a mantenere sempre il dialogo stretto e aperto con le istituzioni, con i governi, perché siamo convinti che ci vuole un coinvolgimento di tutti quelli che sono deputati civilmente al servizio delle persone. Deve essere chiaro che quello che si fa, non lo si fa per emergenza, ma a servizio della dignità della persona umana».