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Migranti: Da Medì, a Livorno, Sant’Egidio invita ad aprire nuovi corridoi umanitari

Un appello forte per aprire corridoi umanitari ed evitare nuovi naufragi e rotte mortali per tanti che cercano rifugio. E’ stato lanciato da Livorno, dove si sono riunite le città del Mediterraneo nel convegno internazionale ‘Medì’, promosso nel Teatro Goldoni dalla Comunità di Sant’Egidio, con il Comune, il patrocinio e il sostegno della Regione Toscana, la collaborazione della Diocesi e di Istoreco,

Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, parlando di flussi migratori e ricordando il recente naufragio sulla spiaggia di Cutro ha detto: “La tendenza si deve invertire, ma per questo occorre fare molte e diverse cose: prima di tutto non terrorizzarsi e non gridare all’allarme. Secondo, aumentare i flussi legali e i corridoi umanitari per i rifugiati, anche perché la nostra società ha bisogno dei migranti e della manodopera straniera”. “Quindi non è solo buon cuore, ma anche una nostra necessità”. Infine “non dobbiamo vergognarci di dire che quando qualcuno si perde nel Mediterraneo è un pezzo della nostra anima che se ne va. E questo è italiano, umano e cristiano”.

Bisogna aprire strade sicure, altrimenti “finiamo per fare il bagno in un mare di cadaveri”. È l’espressione forte utilizzata a Medì da Lorena Fornasir che a Trieste, con l’associazione ‘Linea d’ombra’, si fa vicina quotidianamente a chi arriva dalla rotta balcanica: ragazzi, giovanissimi. Lei li trova scalzi, privi di protezione, segnati profondamente dall’ipotermia e dalle torture subite lungo il viaggio da banditi e guardie. “Rotta balcanica – continua Fornasir – vuol dire un bimbo esausto che dorme sotto un telino termico, senza riparo di notte. Possiamo inchinarci di fronte a quelli come lui, alla loro forza di vita e chiedere “chi sei”? La persona per noi è sacra nella sua interezza: guariamo le ferite”. Fornasir dà voce a quell’anima della sua città, Trieste, che fa “politica di resistenza dal basso”. È un modo vero di assumersi la Storia. Da Trieste a Ventimiglia, frontiera della rotta mediterranea. Delia Buonomo aveva un bar a Ventimiglia. Lo ha aperto anche agli stranieri che, sfiniti, arrivavano nella sua città suscitando prima fastidio e poi rifiuto dai suoi clienti abituali. Ma Delia non si è scoraggiata e ha cominciato a coinvolgere affetti familiari e amici. “Accolta una bambina nuda – ha raccontato a Medì – ho cominciato a raccogliere vestiti. Mi sono ritrovata la serratura chiusa col cemento perché davo fastidio”. Ma si è creata “una rete solidale miracolosa, che attraversa tutte le città italiane”. In che modo? “Tutti abbiamo un’arma, il cuore”. Non si può morire come a Cutro e c’è una strada percorribile, individuata, praticata, che ha consentito a oltre 6 mila persone di giungere in Europa in sicurezza. Elena Arcolao (Comunità di Sant’Egidio), lo sottolinea per Genova, con Clarisse Mbole, camerunense arrivata in Europa in modo legale e sicuro, dopo lunghe e violente traversie: “I corridoi umanitari sono sicuri per tutti e mostrano un’Italia bella, accogliente, che non ha paura e sa integrare”. “Siamo di fronte a vere e proprie storie di resurrezione che aiutano tanti a cambiare mentalità e gli immigrati come Clarisse a passare dal buio della notte al giorno di una nuova vita”

“Possiamo scegliere, fare la differenza e non l’indifferenza”, ha sottolineato a Medì Vittorio Mosseri, presidente della Comunità Ebraica di Livorno. Sul Mediterraneo si affacciano le città dove vivono, come a Livorno, “i figli di Abramo”: ebrei, cristiani e musulmani. A Livorno, sottolinea Mosseri, “la fede di Abramo ha trovato casa, rifugio, diventando relazione e non astrazione”. Poi, raccontando la sua storia di migrazione forzata dall’Egitto dopo la crisi di Suez fino a Livorno, ha ricordato i suoi genitori: “Da parte loro, non ho mai sentito una parola oppure un sentimento di odio verso i musulmani: sapevano che non c’era niente della loro fede nella violenza che ci aveva espulsi; eravamo dieci figli e attraversammo periodi difficili, ma ricordo che loro erano forti, ed erano forti perché avevano fiducia in Dio e negli uomini”. Livorno li accolse, fu città-tenda. L’allusione è alla tenda dove Abramo accolse un giorno tre pellegrini e ricevette benedizione da Dio perchè senza saperlo aveva accolto tre angeli. “Quella ospitalità fu la sua benedizione […] – continua Mosseri – la città di Abramo si arricchisce quando diventa città-tenda, città in cui si pratica l’ospitalità: chi accoglie diventa grande, chi si chiude si immiserisce”.

Dunque si può scegliere: “fare la differenza e non l’indifferenza. Nella nostra fede – continua Mosseri – c’è un precetto forte, a cui non ci si può sottrarre, è il Tiqqun ‘olam che significa “riparare il mondo”: noi siamo qui, nel mondo e nella città, non solo e non tanto per soddisfare le nostre esigenze ma per riparare il mondo”. “A Livorno possiamo molto: laddove non è mai esistito un ghetto le persone sì, discutono, ma non si separano. Livorno, per quanto piccola, può andare oltre. È città dal respiro universale proprio perché qui le tre religioni abramitiche hanno contribuito a costruire un intreccio di persone e di vita, una capacità di prendere con sè attraverso l’ospitalità che è più dell’accoglienza, ed è questo che può aiutare oggi a riparare il mondo”.

Un’indicazione importante per l’immediato futuro. Intanto il giorno dopo la conclusione dei lavori di Medì, nella Sala Nervi a Roma, migliaia di persone hanno festeggiato il ritorno alla vita, salvati e salvatori, famiglie, ragazzi, anziani che hanno ricevuto e dato ospitalità. “Quando abbiamo iniziato – ricorda la delegazione livornese che ha curato l’accoglienza di alcune famiglie arrivate con i corridoi umanitari – ci dicevano: i corridoi? sono una goccia nel mare!. Oggi vediamo di quante gocce è fatto il mare, un mare che salva, un mare in cui non si muore ma da cui si rinasce”. Anche oggi ci sono i “giusti”. In questa terza guerra mondiale combattuta a pezzi, da Medì, la voce di chi dice da che parte della storia ha scelto di stare.