Cultura & Società
Mestieri stravaganti. Vecchie idee per nuovi bisogni
Diceva un tale: il lavoro è triste cercarlo, ma anche trovarlo non è che sia una gran fortuna! Difficile definirlo: per la Bibbia è una condanna, per la Costituzione un fondamento. I mestieri, come tutto, nascono, muoiono, si rivitalizzano. Certo sarà difficile aggiornare attività come la spigolatrice, l’assaggiatore, la spidocchiatrice, il paggio, il pedante, il cozzone, il falconiere, il monatto, il ciccaiolo, la merlettaia, il flebotomo, l’eunuco, lo zampognaro, ma se ne possono trovare adattamenti e modernizzazioni. Il mago, l’indovino, la chiromante, l’arrotino, il guaritore, il votacessi, la cartomante vivono ancora alla grande e non hanno avuto bisogno che di qualche leggera spolverata e rimessa a punto. In fondo l’attuale guida turistica non è che il riciclaggio del vecchio cicerone, il bodyguard non è che la versione moderna dei bravi di Don Rodrigo e dell’Innominato e il gigolò ha il suo antenato nel cicisbeo. Nuovi di zecca sono il pony express, il distributore di pizza a domicilio, lo stunt man, il posteggiatore, il centurione fotografico, il Babbo Natale, la badante, il faccendiere, lo psicanalista, il portaborse.
Espedienti per sbarcare il lunario. Per la pagnotta la gente ha fatto un po’ di tutto. Ad esempio usava un tempo esercitare la professione detta del quattordicesimo. In certe zone si chiamavano così quelli che per amore del prossimo, o per amore della tavola, si dichiaravano disposti ad accettare inviti da quanti, trovandosi in tredici a un convito, non volevano affrontare la cosa in tale numero. Il quattordicesimo aveva un fisico interessante, una certa educazione, un buon livello culturale, un abbigliamento per ogni occasione, un nome d’arte leggermente altisonante. Aveva poi un biglietto da visita dove questa sua professione era indicata con una piccola Q nell’angolo a sinistra in basso del foglio. Si presentava come possidente, ufficiale della riserva, funzionario del ministero, viaggiatore o qualche altra attività onorevole e accorreva in aiuto appena chiamato: mangiava, conversava, raccontava storielle, s’integrava, brindava, faceva perfetti baciamano, fumava, incassava, salutava e spariva.
Fucini racconta una rissa furibonda tra due cercatori di fatte di cavallo, mestiere un tempo non onorevole, poco remunerativo, ma largamente praticato. Anche il primo cliente era un’arte non rara. La superstizione per la quale se il primo cliente che entra in bottega va via senza comprare niente, tutta la giornata non si venderà nulla, tornava comoda agli avari che si alzavano presto ed entrando in un negozio per primi ottenevano sconti esosi, ricattando il bottegaio con la minaccia d’andarsene a mani vuote. Il primo cliente aveva il compito dal gestore d’infilarsi nell’esercizio appena si alzava il bandone, comprare una sciocchezza senza chiedere sconti e aprire la strada alla fortuna della giornata.
Altro mestiere di un certo fascino era quello esercitato nelle sale d’aspetto di medici e ciarlatani: il malato guarito. Per un ragionevole compenso offertogli da un medico alle prime armi, un tale si sedeva nell’anticamera dell’ambulatorio e con tatto e discrezione si dava a magnificare le capacità quasi taumaturgiche del suo datore di lavoro, esprimendo l’immensa riconoscenza di averlo guarito da un terribile male e vari membri della famiglia, amici, conoscenti da pestilenze, morbi atroci o mortali.
Fare il gobbetto fu una risorsa di poca fatica e di un certo utile, seppure riservata a pochi sfortunati – fortunati. Si trattava per prima cosa d’avere una bella gobba, ma la disgrazia era parzialmente compensata dal fatto che al proprietario poteva dare un utile. Come tale poteva andare in giro vendendo corni, amuleti e ferri di cavallo: questi ultimi, perché siano efficaci, solo un gobbo può venderli, altrimenti bisogna trovarli, cosa non facile. La risorsa maggiore del poveretto consisteva nel farsi toccare la gobba a pagamento, cosa che portava il massimo della fortuna e nel tariffario erano previste toccate varie più o meno potenti, più o meno lunghe, più o meno care. Era tanto redditizio il commercio che nell’Ottocento imperversarono nelle sale da gioco molti finti gobbi che, quando erano scoperti, venivano duramente bastonati.
Mestiere ambiguo era quello del raccattabroccoli: una persona di gran garbo e abilità che, piazzandosi come cliente nella sala d’attesa d’un indovino o d’una chiromante, avvicinandosi ai clienti grattava il corpo alla cicala, ossia «li faceva cantare» inducendoli a raccontare i guai e i fatti della loro vita, che andava subito a spifferare di soppiatto al mago, in modo che questi, appena entrava il cliente, gli bastava squadrarlo per dirgli chi era, cosa aveva e quello che gli era capitato, lasciandolo sbalordito e ricavandone prestigio e quattrini.
Il finto vincitore della lotteria è tuttora in servizio: un ambiguo figuro che alle fiere (oggi alla televisione), d’intesa col ciarlatano, vince i migliori premi in palio (l’orologio d’oro, l’anello col brillante), restituendoli poi di soppiatto e ricevendo un congruo compenso dal titolare del banco.
Lavori materiali. La fertilità delle menti in angustie non ha avuto limiti e si potrebbe continuare chi sa quanto. Il lustrascarpe lo facevano quelli senza fantasia, altri esercitavano l’arte del mignattaro che andava nelle paludi a gambe nude, battendo l’acqua con un bastone: le mignatte impaurite gli s’attaccavano ai piedi, alle gambe e lui le riponeva in un secchio, poi le vendeva o le noleggiava per i salassi. Il rigatore passava periodicamente dagli studi di notai, avvocati e professionisti a tracciare le righe sui registri. Erano attività itineranti il pentolaio, il magnano, l’ombrellaio sprangaio, il chincagliere, il ranocchiaio, il poeta d’osteria, il santaro che vendeva santini e immagini miracolose che portavano fortuna a chi li comprava e sfortuna a chi non li voleva, il portaseggette, il porrazziere vendeva acquavite di poco prezzo e da poco valore ricavata dal porrazzo, il cuscinaio noleggiava i cuscini a chi sedeva sulle panche assistendo agli spettacoli.
Una donna in ristrettezze poteva fare la prefica ai funerali e ai mortori, piangendo e lamentandosi per conto terzi in cambio d’una modica cifra. È un’antica e gloriosa attività, praticata nella Grecia antica e in Roma, ancora in uso in alcune zone mediterranee. Come tale ha una procedura prefissata, un tariffario per le varie prestazioni: pianto semplice, con singhiozzi, con grida di dolore, gesti di disperazione, graffi del viso, lacerazione delle vesti, elogi del defunto.
Oggi si chiama claque, un tempo era bracciantato intellettuale che partecipava alle serate teatrali, soprattutto alle prime, per sostenere uno spettacolo di poco valore, applaudendo, chiamando alla ribalta per pochi spiccioli.
Lavori d’impegno. Il mestiere del granchiaio non è scomparso da molto, ma era molto diffuso: a Roma lo chiamavano granciarolo. Pirro Giacchi racconta che «in Sesto, stazione a strada ferrata a otto chilometri da Firenze, si fa un commercio di granchi teneri. Li mettono in tanti pentolini e mutano continuamente l’acqua a certe combinazioni di luna, finché deposta l’antica coccia, resta, colla nuova, molle e quindi si vendon per la nostra città al grido di Granchi teneri!».
Un discreto lavoro era anche quello del rinnovatore di scarpe. Queste, e soprattutto gli scarponi e gli stivali, un tempo da nuovi si presentavano duri, ma bastava affidarli a una persona pratica del mestiere per riaverli piegati e ammorbiditi nel giro di poco tempo. Il rinnovatore si metteva in marcia distribuendo il tempo della giornata alle varie calzature che aveva da trattare e presto le portava alla morbidezza desiderata. I padroni lo facevano fare ai contadini, gli ufficiali agli attendenti, ed era un bel risparmio.
Il volpaio e il luparo cacciavano volpi e lupi nelle zone vicine alle abitazioni e agli ovili, chiudevano gli animali in gabbie sui carretti e li portavano in giro mostrandoli con un certo orgoglio e lasciandoli ammirare dai bambini: chiedevano un obolo che nessuno negava, per aver salvato greggi e pollai da onerose decimazioni. Il viperaio forniva un tempo agli speziali le vipere per fare il siero, ma poi, finita la farmacopea artigianale, disinfestava dalle vipere le zone coltivate, portandole anche lui in giro e racimolando di che vivere.
Specializzazioni. C’erano mestieri di alta qualifica che toccavano a pochi. Ad esempio presso i Traci la diplomazia era un lavoro serio e impegnativo. Narra Erodoto (Le storie, IV, 94) una loro curiosa usanza: «Sempre, ogni quattro anni, i Traci mandano uno di loro, tratto a sorte, come messaggero presso il dio Salmoside, affidandogli l’incarico di cui, volta per volta hanno bisogno. Ecco come avviene la missione: quelli di loro che ne hanno l’incarico protendono in alto tre giavellotti, mentre gli altri, afferrato per le mani e i piedi colui che è delegato ad andare da Salmoside, lo lanciano in alto in modo che cada sopra le punte dei giavellotti. Se muore trafitto, essi pensano che il dio sia favorevole, se non muore gettano la colpa sul messaggero stesso dicendo che è un uomo perfido, e dopo aver incolpato questo, ne delegano un altro. L’incarico, naturalmente, lo affidano mentre è ancora in vita».
Anche altre arti richiedono talento. Totò, su ispirazione di Pirandello, voleva la patente per fare il menagramo. Per un sensale di matrimoni, cozzone, ci voleva una persona qualificata e di grande esperienza. Per il festaiolo era necessaria la vocazione ed era richiesta una figura brillante, piuttosto colta, che sapesse leggere e scrivere, avere nozioni di musica, avere una bella voce e capacità di suonare uno strumento. Veniva chiamato alle feste come organizzatore, maestro di cerimonie e tuttofare: spesso erano anche due o più, pagati con un discreto onorario. Davano tono ed erano l’anima di matrimoni d’una certa importanza, feste di titolari, ricorrenze civili, visite di personalità. Per i funerali lavoravano in versione contristata. Provvedevano ad allestire un pranzo, fare inviti, sbrigare faccende, intrattenere persone, dirigere un ballo, istruire un coro, fare brindisi, tenere allegra la compagnia con giochi e barzellette. Il festaiolo poteva cantare la messa come canzoni in piazza, i vespri come gli stornelli e di solito non abbandonava mai il fiasco per esigenze di servizio.
La pittima è attività squisitamente napoletana, serviva per riscuotere i debiti, ma oggi sono arrivati mezzi più spicci. La pittima, che prende nome da un uccellino petulante, era a suo modo un professionista che, assoldato dal creditore, s’appostava nei luoghi pubblici frequentati dal debitore e, quando, ad esempio, questi si stava godendo una pasta e un caffè al bar, sbucava fuori dalla ressa e ad alta voce lo apostrofava davanti a tutti gli avventori: – Ah, caro signor Mario Rossi, abitante in via tale, numero tale, qui si mangia e si beve, ma quando ci si ricorderà di pagare quel debituccio di mille palanche che deve al signor Gino Verdi che l’aspetta da un anno e mezzo?
Dopo aver infangato a dovere il moroso la pittima era abilissima nell’alzare i tacchi e sparire velocemente per evitare di prendersi una fila di sganassoni. Dopo diversi di questi trattamenti il debito veniva saldato e la pittima pagata.
Il parere di Freud. Sul lavoro resta molto da dire, soprattutto sulla sua natura misteriosa. La psicanalisi non aiuta: Freud nell’Introduzione allo studio della psicanalisi scrive: «L’uomo primitivo si rese piacevole il lavoro trattandolo come sostituto ed equivalente delle attività sessuali». Questa capacità dell’uomo primitivo purtroppo è andata perduta completamente e Freud, che l’ha intravista, non ce l’ha saputa recuperare. Peccato: aprirebbe orizzonti sconfinati per la vita di fabbrica, d’ufficio, di cantiere e di miniera. Studiando bene si potrebbe arrivare anche a invertire il processo, ossia trattare l’attività sessuale come sostituto ed equivalente del lavoro, forse con qualche compromesso morale, ma con la prospettiva di un’attività per più aspetti gratificante.