Lettere in redazione
Meglio le frustate al nostro carcere
Cos’è il carcere oggi, a cosa ed a quale dissacrante dottrina si è ridotto, se non all’indifferenza? Sovraffollamento che non è più riconducibile al solo problema endemico all’Amministrazione penitenziaria: è il risultato di recidive alimentate da politiche ingannevoli, più galera per tutti, meno misure alternative che invece insegnano a lavorare, a faticare, a scegliere la responsabilità, in un patto di lealtà sociale.
Carenza di personale professionale e dimezzamento dei fondi di investimento al settore giustizia non sono sufficienti a confermare il livello di disumanità che circonda un penitenziario, una cella, un cittadino detenuto, perché ancora tale è, come sancito dalla Costituzione, dalla condizione di persona momentaneamente privata della libertà, non certamente del diritto di sperare.
Quando penso al carcere, malandato, umiliato, percosso dalle intelligenze addormentate, mi vengono in mente le pretese di giustizia di un certo Peter Moskos, ex funzionario di Polizia, ora docente di diritto penale, salito prepotentemente alle cronache per un report di 154 pagine, con cui ritiene di superare il fallimento del sistema penitenziario americano, debellando il più devastante sovraffollamento carcerario della storia dell’umanità, attraverso la punizione della flagellazione. È soltanto una boutade sconcertante di un illuminato senza più luce né ragione, oppure c’è qualcosa che fa al caso nostro? Al sistema americano certamente sì, con la pena di morte, con il carcere privatizzato, con la violenza intramuraria che neppure i films riescono più a immaginare, figuriamoci raccontare.
Nel paese della selva oscura dell’Alighieri e del Benigni che disconoscono i gironi ben nascosti di un inferno in continua ebollizione, forse qualche nerbata potrebbe passare, come pena alternativa a un carcere che mi ostino a dire che ancora non c’è. Oppure il solo pensare a una punizione come questa scandalizza, perché ci ricorda la schiavitù, qualche reminiscenza di tortura, di inquisizione, di pene illegali. Certo non è semplice optare per una condanna alla frustata, al ritorno del sangue statuale, ma con qualche scudisciata ben assestata, il 70% di popolazione detenuta potrebbe nell’immediato lasciare le anguste e sovraccariche celle italiche.
Disturba fare ricorso anche solo con le parole a una violenza che dovrebbe «sanare» altra violenza, che «ripara» il male con altro male, eppure come è possibile inorridire assai meno per una pena che rapina le dignità con inaudita perseveranza, tant’è che a metà anno abbiamo perso il conto dei tanti «evasi» con i piedi in avanti, detenuti e agenti. Sobbalziamo al pensiero di trascendere alla fustigazione, rimanendo impassibili di fronte al grado di violenza cui è sottoposto il detenuto, e non solo, l’intero impianto penitenziario.
Abbandono e indifferenza, morte dei corpi e delle menti, morte di ogni possibilità di comprendere di sé e del proprio esistere nella vita che rimane, nonostante la cella, nonostante il carcere.
È un degrado che polverizza ogni speranza di sentirci ancora utili, parte di una società che professa la difesa del diritto alla riabilitazione, che giustamente rigetta il teatrino dei dinieghi alle frustate, ma non intende guardare al di là del muro, dove l’ultima solitudine è concessa senza timbri sul passaporto.
È morte assunta con una stringa allacciata alla gola, in un giorno dove Dio è morto dentro una cella.
Ringrazio Vincenzo Andraous per questa testimonianza sul carcere, dei cui problemi si parla sempre troppo poco. Ricordo che Vincenzo, di origine catanese, ha trascorso 40 dei suoi 58 anni nei penitenziari più duri della penisola. Condannato all’ergastolo perché implicato in tre gravi omicidi, oggi è in regime di semilibertà e dopo un cammino di conversione, è diventato apprezzato scrittore e saggista. Attualmente lavora presso la Casa del Giovane di Pavia, una comunità per ragazzi contro le dipendenze (alcol, droga, disagio). In questa torrida estate, che ha messo a dura prova tutti noi, ma soprattutto tanti anziani che vivono nelle città, pensiamo a quale punizione aggiuntiva sono stati sottoposti i detenuti, che quasi ovunque basti pensare ai carceri toscani vivono in celle bollenti e sovraffollate.
Ho letto in questi giorni la lettera che Antonio Simone uno degli indagati nell’inchiesta sulla sanità milanese , oggi recluso nel carcere di San Vittore a Milano («costretto in 4 metri per 2», con altre cinque persone), ha inviato ad un settimanale, in risposta ad un articolo assai «forcaiolo» di Marco Travaglio sul «Fatto quotidiano». Antonio Simone è uno dei 14 mila reclusi «in attesa di giudizio», il 20% dell’intera popolazione carceraria, il doppio della media europea. Le statistiche dicono che alla fine la metà di loro verrà riconosciuta «innocente», ma intanto la loro vita sarà stata sconvolta. Non è anche questa un’emergenza italiana?
Ma quello che mi ha più colpito dell’intervento di Simone è la polemica con Travaglio sulle misure alternative alla pena. In Italia abbiamo 66 mila reclusi, e 20 mila con misure alternative. Meno di un terzo. Per qualcuno, come Travaglio, sono anche troppe. Eppure in Inghilterra con 86 mila detenuti le misure alternative riguardano 234 mila persone. In Francia, con 64.787 detenuti, 173 mila. In Spagna con 70 mila detenuti, ben 204 mila. E negli Stati Uniti le misure alternative (4.877.000) sono più del doppio dei detenuti (2.350.000). Perché in Italia sono così poche?
Claudio Turrini