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Medio oriente, gli Usa non capiscono e l’Europa non c’è

di Pier Antonio GrazianiIl terrorismo non risparmia né esonera alcuno. È fortemente presente persino nelle guerre indette per sradicarlo. Il terrorismo e i terroristi sono un po’ come i camaleonti: mutano pelle a seconda delle circostanze e degli interessi. Cosicché il terrorista, sia quello che si fa esplodere sia quello che spara dall’elicottero, una volta è esecrabile e l’altra, un eroe. È del resto storia di tutti i tempi: nel nostro Risorgimento, ad esempio, gli irredentisti trentini erano terroristi pericolosi per l’Austria, ma eroi a buon titolo per l’Italia che si unificava.

Voler capire il Medio Oriente sulle note del terrorismo diventa allora confondente. A terrorismo e bellicismo messi fra parentesi, il dato centrale di quel che capita in Medio Oriente, da sessant’anni a questa parte, è la rotta di collisione con l’Occidente. Con gli Stati Uniti, in particolare e la loro pretesa di governare la zona con l’esportazione di una cultura sradicante: dall’occidentalizzazione, fallita, della Persia cui si accompagnava la guardiania dello scacchiere meridiorientale affidata all’esercito dello Scià, fino alla democrazia, incompresa dagli iracheni.

La questione israelo-palestinese, è un altro aspetto dello stesso problema poiché, come sono andate sin qui le cose, l’Occidente è parso trasformare Israele in un altro se stesso in missione mediorientale di contenimento. Così lo stato ebraico è visto avanguardia di un’egemonia occidentale che si scontra apertamente ora con l’Iraq e iscrive altri, come la Siria, nel registro degli stati canaglia.

Gli Stati Uniti hanno problemi a capire. L’Europa che dovrebbe capire meglio, semplicemente non c’è: magari brontola con gli Stati Uniti ma non è capace d’altro che spedire il commissario Solana nella zona a vedere se ci fosse qualcosa da fare. Il problema israelo-palestinese resta lì, epicentro di una zona pericolosamente sismica. Nè si vedono soluzioni accettabili senza forti pressioni internazionali.

Israele, lasciato a se stesso, è incapace a conciliare la prospettiva dei due stati con la tendenza ai confini biblici, insita non solo nella volontà dei coloni a farsi restituire l’eredità dei nonni, ma nella stessa angustia territoriale sulla quale preme l’immigrazione proveniente dalla diaspora. Nè il ritiro da Gaza lascia intravedere l’inversione di tendenza necessaria (Gaza, come disse Ariel Sharon, era terra filistea e dopo tutto, si può aggiungere, scomoda per la densità della popolazione in rapporto alle risorse).

Sarà allora una coincidenza ma quando si profila la possibilità di avvicinare l’obbiettivo di due stati, il Libano finisce invaso. Capitò così nell’82 quando Henry Kissinger aveva fatto sapere di un progetto reganiano per la costituzione di una «crisalide» di stato palestinese. La morsa che oggi stringe uno stato sovrano è cominciata quando un’intesa fra Al Fatah ed Hamas sembrava aprire le porte al riconoscimento generalizzato dello stato di Israele. Le coincidenze quando si ripetono sono come la somma di indizi: possono essere considerate prova.

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