Fare il medico, si dice spesso, più che un mestiere è una vocazione. Per Maria Chiara Maestrini la vocazione è doppia: dopo la laurea in medicina, e cinque anni di lavoro sanitario tra i senza fissa dimora in un centro Caritas di Roma, questo sabato arriva la Professione solenne, con l’emissione dei voti perpetui nelle Suore della Carità e dell’Istruzione Cristiana, le cosiddette «suore di Nevers».«La nostra – racconta – è una congregazione di vita apostolica: il nostro carisma è quello di farci compagne di strada degli ultimi del nostro tempo. Abbiamo un’attenzione particolare per il mondo dei migranti, dei senza fissa dimora». Due scelte di vita, la medicina e l’abito religioso, che non sono quindi in contraddizione: sono il frutto di un percorso iniziato, a Firenze, una ventina di anni fa. «Sono nata e cresciuta a Firenze – racconta suor Maria Chiara – tra la parrocchia, l’Azione cattolica: sono stati ambienti importanti anche per la mia crescita umana, per le relazioni. Mi sono imbattuta nelle suore di Nevers tramite un’amica del gruppo parrocchiale, che ha una zia nella congregazione. L’ho conosciuta in qualche incontro a cui è intervenuta: la cosa che mi ha colpito e che mi ha poi spinto, a distanza di tempo, a ricercare le suore, è stata la passione che ho sentito in questa donna, passione per l’uomo e per la Parola di Dio. Mi sembrava molto libera come approccio alla vita, e mi incuriosiva».È stato un avvicinamento lento: «Questi primi incontri sono avvenuti quando ero alle scuole superiori, poi per una decina d’anni non le ho più frequentate. Ogni tanto sentivo una vocina dentro di me che diceva: potrei parlarci, fare una chiacchierata. Sentivo questo desiderio, ma allo stesso tempo lo fuggivo. Da più grande, su 25 anni, ho incontrato di nuovo le suore di Nevers, e ho sentito che era quello che cercavo: la prima sensazione è stata quella. Prima di entrare nella congregazione sono passati altri cinque anni: non è stata una folgorazione, è stato un percorso lungo, con tante tappe…»Nel frattempo, ha fatto altro: «ho studiato, ho fatto medicina, avevo i miei amici, il mio gruppo, ho avuto un ragazzo… Tutte cose molto normali. Mi sono laureata e ho proseguito con il corso di specializzazione in medicina di base, ho iniziato a Firenze, poi a metà mi sono trasferita a Roma, per iniziare intanto l’altro percorso».Suora con una laurea in medicina: «Sono rimasta molto legata all’ambito medico. Gli anni di formazione, durante il noviziato, sono anni in cui si approfondisce la strada che stiamo scegliendo, anni di discernimento… Poi dopo la professione temporanea, in cui si rinnovano i voti ogni anno, ho ripreso la mia attività di medico, lavorando con Medici Senza Frontiere in un ambulatorio per le vittime di tortura. Poi ho iniziato a lavorare con la Caritas di Roma come medico in un centro di accoglienza per senza fissa dimora alla Stazione Termini. Sono stata lì dal 2015 fino a un mese fa, ed è stata l’esperienza che più mi ha segnato, è stata la mia scuola di formazione, potrei dire.Un’esperienza forte, a volte anche difficile, con tante sofferenze. Ma anche un’esperienza molto bella, di vicinanza quotidiana alle persone. Io ero il medico che andava a casa loro: mi ha dato la possibilità di farmi compagna di vita, nel quotidiano, offrendo la possibilità di cura a chi altrimenti sarebbe fuori da ogni percorso sanitario. Si lavora in equipe: medico, psicologo, infermiere, assistente sociale… La cura medica è solo una parte di un percorso di aiuto alla persona, per accompagnarla nel reinserimento nel tessuto sociale, un percorso che oltre all’aspetto sanitario guarda a tutti gli aspetti, la povertà di relazioni, le ferite che vengono da un passato frantumato, la mancanza di una casa, di un lavoro… Sulla casa c’è una frase di don Luigi Di Liegro: “una città in cui un solo uomo soffre meno è una città migliore”. All’inizio mi sembrava una frase ingenua, che senso avrebbe, mi chiedevo, curare una persona sola in un luogo dove ci sono tante persone che soffrono? Ora dopo cinque anni ho capito cosa voleva dire».Sabato, a Roma, la Professione solenne. E poi? «Adesso la congregazione mi ha chiesto di prendermi un tempo di studio, filosofia, teologia. Fa parte della nostra formazione: è importante unire i due aspetti, l’esperienza di servizio alle periferie del mondo con l’approfondimento delle motivazioni spirituali, bibliche, teologiche, per cui facciamo tutto questo: incontrare Cristo nei poveri. È un modo anche per rinsaldare l’appartenenza ecclesiale, per vedere la propria esperienza personale in un contesto più ampio».Nel futuro c’è comunque la prospettiva di mettersi al servizio di chi ha bisogno: «Non so cosa la mia congregazione mi chiederà. Certamente la realtà degli ultimi per noi è essenziale, ma ancora non so dire in quale modo starò in mezzo a loro. Fare il medico mi piace, questi anni sono stati per me un grandissimo dono ma ci sono tanti modi per prendersi cura degli altri. Sono grata alla congregazione per come mi ha formato, ho ricevuto tantissimo e sono a disposizione per provare a restituire qualcosa, nei modi in cui mi sarà chiesto».