Cultura & Società

Mauro, il viaggio dell’anima

di Gianluca della MaggioreDa Viareggio a Fatima in bicicletta, passando per Lourdes e Santiago de Compostela. Vista così sembra un’impresa sportiva come tante, cambia tutto però se il ciclista in questione è un atleta sui generis, cioè diabetico di primo livello, uno – per intenderci – che ogni giorno deve farsi quattro iniezioni di insulina per tenere sotto controllo la glicemia. E allora, al di là del gesto sportivo, questa strana storia ci si palesa come un qualcosa di più complesso: un viaggio dell’anima più che del corpo, un pellegrinaggio spirituale incontro ai propri limiti, per andarli a scovare nella loro cruda realtà e guardarli bene in faccia e dire a se stessi, e soprattutto a chi scopre di essere malato e fa fatica ad accettarsi, che si può andare oltre. Mauro Talini (nella foto a Lourdes), trentenne di Quiesa (Massarosa), in 18 giorni – dal 5 al 22 aprile – ha percorso 2664 chilometri, al ritmo di quasi 200 al giorno, ha visitato i tre Santuari più famosi d’Europa e alla fine si è accorto che i chilometri più importanti li aveva pedalati dentro di sé. Perché c’era una grande compagna di viaggio in questa «proeza» – come l’hanno definita i giornali spagnoli – questa «prodezza», questo viaggio prodigioso, era accompagnato da una fede tenace. Che tutto supera e tutto spera. Eppure quando l’abbiamo incontrato ha voluto subito precisare: «premetto che ho poca fede». Una «poca fede» che però nel 2003 l’ha portato a fare il giro del centro Italia – 1246 km – facendo tappa ai Santuari di Loreto e di Assisi, e nel 2004 l’ha condotto sulle orme di Padre Pio, fino a San Giovanni Rotondo. Una tappa «obbligatoria» nel giro che l’ha portato a spasso per l’Italia per altri 2359 chilometri. Tutti in bicicletta, naturalmente.

Certo che per avere poca fede ne hai collezionati di santuari…

«Diciamo che fare questo tipo di pellegrinaggi mi aiuta ad avere fede. Non mi ritengo certo un modello per qualcuno. Fare queste lunghe pedalate in solitario ti porta al centro di te stesso, in un certo senso il viaggio lo fai anche dentro di te, riesci a crearti una tua profonda intimità e Dio te lo senti vicino. Nelle mille strade che ti trovi a percorrere a contatto con la natura senti la sua presenza, ti si insinua dentro il desiderio di stare con lui».

Ti ha aiutato la fede per superare la tua malattia?

«Negli ultimi anni è stata una componente fondamentale. Come per tutti i diabetici all’inizio non è stato facile: ho scoperto la malattia quando avevo 11 anni, ed è stato traumatico. Non la volevo accettare, facevo finta di non averla. Sai, non è facile per un ragazzino di quell’età farsi tutte quelle iniezioni al giorno e poi non poter far questo e quell’altro perché altrimenti puoi star male. Il rischio, come purtroppo succede spesso, è di isolarsi, rinchiudersi in se stessi ed entrare in depressione».

E invece?

«Passato il momento critico dell’adolescenza ho capito che dobbiamo accettarci così come siamo, perché nulla viene a caso. Quando vado in bicicletta spesso capitano degli imprevisti, e ciò che conta è come li affronti: per esempio in quest’ultimo pellegrinaggio nei tre giorni in Francia ho dovuto fare i conti con un vento pazzesco, in pianura non riuscivo a fare più di 9-10 chilometri all’ora, è lì che il limite lo guardi in faccia, diventa come un compagno di viaggio con cui fare i conti».

È stato così anche per la tua malattia?

«Sì, la malattia la accetti quando capisci che non è un corpo estraneo a te ma è una parte di te che richiede cura, un compagno di viaggio a cui chiedere ogni tanto “come stai” per non farti giocare brutti scherzi. Ma soprattutto quando capisci che non è la malattia ad impedirti di credere nei tuoi sogni».

Non rischi però, agli occhi degli altri malati, di apparire un po’ come un superman irraggiungibile?

«Il messaggio che voglio dare è proprio il contrario. Ho partecipato a diversi congressi di medici ed ho sempre detto che non voglio dare l’impressione di essere un “marziano” agli occhi di chi è malato come me. Queste pedalate per l’Italia e l’Europa non le ho organizzate da solo come per un capriccio di un bambino. Hanno l’appoggio di associazioni come l’Aniad (Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici), di enti come l’Ausl 12 di Viareggio e il Comune di Massarosa e anche della casa farmaceutica Novo Nordisk che ha sponsorizzato quest’ultimo pellegrinaggio. E nascono proprio con uno scopo umanitario: far capire ai malati di diabete, ma non solo, che imparando a convivere con la propria malattia, imparando a conoscere i propri limiti, questi non ti impediscono di vivere e soprattutto non ti impediscono di coltivare le tue passioni. Come dice il proverbio? Le vie del Signore sono infinite».

C’è una cosa che l’intervista non può rendere ed è lo sguardo sereno di questo ragazzo, il suo interrompere la chiacchierata con qualche bella risata, la fiducia che gli si legge negli occhi. Come se davvero la malattia più che togliergli qualcosa gli avesse dato una marcia in più. Diabete etimologicamente significa «passare attraverso», e Mauro alla sua malattia ci è realmente passato attraverso, uscendone più forte. Un po’ come quel cristiano che non si ferma al Venerdì Santo, ma sa vivere la speranza della Domenica di Pasqua. E la devozione a Maria lo ha certo aiutato.È vero, come si legge sui giornali portoghesi, che mentre arrivavi a Fatima hai cominciato a cantare dei canti religiosi?«Sì – ride – ero arrivato a destinazione e non mi sembrava vero. La mia meta finale così desiderata e così sudata. Quel giorno ho voluto percorrere solo 66 km. Sono stati i più intensi dal punto di vista emotivo, ho provato sensazioni uniche, bellissime, difficili da spiegare. Negli ultimi 3 chilometri ho cominciato a cantare il Padre Nostro e l’Ave Maria, c’era chi applaudiva, chi mi salutava ma anche chi mi prendeva per uno svitato. Appena arrivato al Santuario ho sentito il bisogno di confessarmi e di ritirarmi in preghiera. Mi ha dato una grande serenità interiore».Ma perché questa devozione particolare alla Madonna di Fatima?«Visitare il santuario di Fatima era un sogno che coltivavo da tempo. E poi c’è un episodio che in qualche modo mi ha dato una forza in più. L’anno scorso è morto mio nonno, Amos Ghiri, lui aveva una fede profonda ed era stato molte volte a Fatima e a Lourdes come volontario dell’Unitalsi. Poco prima di morire mi ha detto: “Maurino, arrivare a Fatima in bicicletta è dura”. Eppure io non gli avevo detto niente. Quelle parole mi hanno fatto uscir fuori energie nascoste: ho portato con me una sua fotografia per tutto il viaggio e arrivato a Fatima ho fatto dire una Messa per lui nella cappella del santuario. In un certo senso mio nonno mi ha accompagnato lungo tutto il viaggio».