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Maurizio Agliana: «In Iraq la forza della preghiera»

di Gianni RossiLa gente lo ferma per strada, gli chiede autografi, gli vuole stringere la mano. Maurizio Agliana, tornato libero nella sua casa di Prato da meno di due mesi, lo riconoscono tutti: un po’ perché la vicenda degli ostaggi italiani in Irak ha commosso l’Italia intera, un po’ perché con la statura e la corporatura che si ritrova è impossibile non accorgersi della sua presenza. E dire che i suoi amici lo chiamano «cucciolo»! «Mi capita spesso per strada che genitori e nonni – ci racconta divertito – mi facciano toccare dai bambini: dicono che sono un miracolato». «Altroché se lo è», soggiunge sicuro il babbo Carlo.

Incontriamo Maurizio, a poco meno di due mesi dalla sua liberazione, a casa della sorella Antonella, il volto – durante i 58 giorni di prigionia – simbolo della speranza, oltre che la portavoce delle famiglie degli altri ostaggi sopravvissuti: Salvatore Stefio e Umberto Cupertino. Mentre conversiamo seduti al tavolo di cucina, parte all’improvviso l’inno di Mameli: è il cellulare di Maurizio, che squilla, e quella suoneria riassume, nel suo significato simbolico, tutta la vicenda di questo ragazzone di Prato. Al telefono è la mamma di Maurizio, ancora all’oscuro del dramma che il figlio ha vissuto: «Siamo riusciti a non dirle nulla, anche perché non esce mai di casa. È stato meglio così», dice il babbo Carlo.

Libero da un mese. Che significato ha per lei, ora, la libertà?

«Ho sempre apprezzato la libertà, che per me è libertà anche di scelte: non a caso ho deciso di svolgere un lavoro che può comportare anche dei rischi. Se devo essere sincero, non è che ora per me la libertà abbia un significato diverso rispetto alla vita precedente alla cattura».

Cosa ha fatto in questo mese e mezzo?

«Ho cercato di rientrare gradualmente nella normalità. Ho ripreso contatti con gli amici, con il lavoro».

Hai già iniziato a lavorare?

«Ho ripreso parzialmente, dedicandomi soprattutto all’ufficio dell’agenzia di servizi per la sicurezza di cui sono socio. Comunque non è stato facile rientrare nella vita di sempre, anche se, devo dire, sono stato molto aiutato dagli amici e dai familiari. Una cosa posso dire con sicurezza: non mi sono rilassato: ancora sono numerose le pressioni e gli input che mi fanno riaffiorare i ricordi».

Possiamo ricostruire le varie tappe della prigionia?

«Preferirei non soffermarmi su questa domanda, a parte il fatto che molti aspetti della prigionia non sono ancora chiari o, comunque, sono coperti dal segreto istruttorio».

Torna spesso col ricordo a quei momenti?

«Sì, ancora molto, meglio sarebbe dire troppo. Ma è difficile dire che sensazioni provo quando il ricordo riemerge. Voglio cercare di mettermi questa storia alle spalle, senza dimenticare per carità, ma voglio andare oltre».

Ha ancora paura?

«La paura è una componente della vita umana. Dipende da come si riesce a gestirla. Se non riuscissi a farci i conti, credo che non farei questo lavoro».

La sua vita come e in che cosa è cambiata?

«Non direi che è cambiata. Certo, non posso far finta di nulla, ma credo di essere fondamentalmente lo stesso di prima. Forse è cambiata nel senso che, bene o male, sono diventato un personaggio: abituato a lavorare per le persone famose, ora… sono passato dall’altra parte della barricata. La gente mi ferma per strada, mi chiede autografi. Questa sovraesposizione della mia immagine devo dire che è controproducente per il mio lavoro che, per definizione, richiede riservatezza e discrezione. D’altra parte, considerando la vicinanza e l’affetto che tutti gli italiani hanno dimostrato nei confronti miei e degli altri ostaggi, non è che posso rifiutare le attenzioni che ricevo dalla gente».

Alla morte solitamente ci si pensa poco. Voi avete dovuto farci i conti. Che pensiero è quello della morte?

«Sì, è vero, con l’idea della morte abbiamo dovuto convivere per tutti e 58 i giorni della prigionia. Pensavamo al rischio che incombeva sulle nostre vite e pensavamo a Fabrizio Quattrocchi, alternando speranza e timore: preferivamo pensare che fosse stato liberato. Però – sono sincero – in quei giorni tutti e tre abbiamo pensato più alla vita che alla morte. Credo che sia stata una grande ancora di salvezza».

Come ha trovato la forza in quei due mesi di prigionia?

«Beh… ho la fortuna di avere un carattere forte. Mi sono fatto molta forza pensando alla mia famiglia e poi anche con la preghiera. Insieme con Stefio e Cupertino non abbiamo mai pregato, ma ognuno di noi, ogni tanto, si raccoglieva in preghiera: anche se eravamo spesso bendati e sdraiati, si intuiva».

Durante la conferenza stampa dopo la liberazione lei accennò ad un rinnovato percorso spirituale che ha vissuto in quei giorni.

«Sì, è vero. Io mi definisco credente, anche se non sono un gran praticante. Devo dire che in quei giorni (e certo non è stato un caso) è nata una corrispondenza particolare – userei proprio questa parola – con Dio. Un percorso nuovo. Vedremo dove andrà a sfociare».

Sua sorella ebbe parole di grande significato e valore, parole di perdono nei confronti dei sequestratori. Lei che sentimenti ha provato e prova attualmente nei loro confronti?

«Penso spesso a loro. Non li ho mai potuti guardare negli occhi, perché hanno sempre avuto il volto coperto. Sono sicuramente persone che hanno grossi problemi. Io, però, non mi sento al momento di pronunciare parole di perdono».

Ripartirà per qualche altra missione all’estero?

«Non lo escludo. Davvero».

Qualche giorno di vacanza?

«Partiamo proprio domani (sabato 24 luglio, ndr) per una settimana, tutta la famiglia insieme. Ne ho davvero bisogno».

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