di Pier Angelo MoriChe un intervento correttivo sulla finanza pubblica fosse in arrivo era noto da mesi. A partire dalla crisi dei mercati finanziari del 2008 l’Italia, così come gli altri partner europei, ha attuato una politica fiscale espansiva (ammortizzatori sociali, incentivi alla produzione, ecc.) che ha determinato nel 2009 lo sforamento del tetto del 3% previsto dal Patto di Stabilità europeo per il deficit. Il Governo italiano si era impegnato a un rientro già a partire da quest’anno il che di fatto, data la crescita lenta del PIL, significava intervenire sulla finanza pubblica. Se la manovra era prevista, non lo era tuttavia con questi tempi e quest’entità. Come tutti sanno, la crisi dell’euro, scatenata dalla crisi economica e finanziaria della Grecia, ha spinto i paesi europei ad intervenire frettolosamente per dare un segnale di stabilità ai mercati finanziari. La manovra italiana dunque si inserisce in un contesto di misure analoghe ma assai più robuste delle nostre, intraprese dai paesi dell’Unione e in particolare dai paesi più grandi come Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna. La necessità dell’intervento non è messa in discussione neanche dagli osservatori più critici nei confronti del governo; le opinioni invece divergono riguardo all’entità e soprattutto alla natura delle misure intraprese. E allora vediamole brevemente anche se è presto per una valutazione definitiva, data la discussione ancora in corso e la possibilità di modifiche all’impianto complessivo. Cominciamo dall’ammontare della correzione che a saldo è stimata in 24 miliardi di euro.E’ un valore di media grandezza, certamente più ampio di quanto non fosse nei progetti del governo, ma non tale da spaventare gli italiani che hanno visto negli anni un susseguirsi di manovre correttive spesso di ben altre dimensioni a partire dalla madre di tutte le manovre, quella del governo Amato nel 1992, in piena crisi valutaria (della lira) e Tangentopoli. Allora il problema era italiano e l’Italia si trovava a fare l’ultima della classe rispetto ai maggiori partner europei. Oggi l’Italia è in numerosa compagnia e non è di certo la maglia nera del gruppo. Questo non significa che le cose per noi vadano bene, perché anche noi con gli altri paesi europei condividiamo l’euro e i problemi che derivano dall’attuale instabilità valutaria, ma questa volta il demerito è soprattutto di altri. Basta ricordare le principali cause dell’attuale turbolenza valutaria: le difficoltà del sistema bancario, problema che riguarda Spagna, Gran Bretagna, Irlanda e anche in parte la Germania ma non l’Italia, la bolla immobiliare, problema soprattutto della Spagna, e la spesa pubblica corrente fuori controllo, problema ancora una volta di altri paesi europei – Grecia in testa – ma non dell’Italia.I singoli provvedimenti sono molto articolati e, come dicevamo, ancora suscettibili di aggiustamenti. Sul piano delle entrate il fulcro è il recupero di una parte dell’evasione fiscale, per contrastare la quale il governo introduce una serie di strumenti tecnici come la tracciabilità dei pagamenti. Quando c’è di mezzo l’evasione – fenomeno per sua natura sfuggente – sono difficili previsioni puntuali ma quel che è certo è che, pur andando nella direzione giusta, non saranno questi aggiustamenti tutto sommato marginali a determinare spettacolari inversioni di tendenza. Sul piano della spesa, a grandi linee, vi sono due principali aree di intervento, su cui si è maggiormente concentrato il fuoco delle critiche: la riduzione della spesa per la pubblica amministrazione e la spesa pensionistica. Le due aree di intervento sono piuttosto diverse per motivazioni e impatto. L’innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni è una delle misure che ha suscitato più dibattito ma deriva da un’imposizione della UE, non da una scelta del governo e nell’immediato ha un impatto nullo. Le altre misure pensionistiche (la finestra unica, la dilazione del TFR per i pubblici dipendenti, la stretta sulle pensioni di invalidità, ecc.) sono piuttosto blande.Un più consistente impatto distributivo hanno le misure di contenimento del costo del lavoro pubblico, in primo luogo il congelamento degli stipendi e il blocco del turnover per tre anni, nonché il blocco dei rinnovi contrattuali per due, ma anche qui non si tratta di lacrime e sangue. Per inquadrare correttamente queste misure bisogna ricordare che nell’ultimo decennio gli stipendi nel pubblico impiego sono cresciuti ben più che nel settore privato (40% contro 25%) e inoltre che il settore privato sta vivendo un’impennata drammatica della disoccupazione. Il problema maggiore non è dunque l’asserita iniquità di questi interventi ma semmai l’effetto di lungo periodo sul funzionamento del settore pubblico che già non è soddisfacente e in assenza di interventi strutturali sulla pubblica amministrazione è destinato a peggiorare. Un dilemma analogo pongono i tagli agli enti locali, comuni e regioni in primo luogo. Anche qui è evidente a tutti che ci sono inefficienze e sprechi che non ci possiamo più permettere (basta ricordare la spesa sanitaria di alcune regioni) e che è giusto intervenire in modo deciso. Ma è anche chiaro che in assenza di riforme strutturali tutto ciò si tradurrà in una diminuzione del livello dei servizi (si pensi ancora alla sanità) più che in una riduzione delle inefficienze.La manovra di quest’anno, come tante altre del passato, è una somma di limature e aggiustamenti che per lo più rispondono alla logica dell’emergenza, da tempo una costante del nostro paese, e in quanto tali destinate a incidere poco o nulla sui problemi strutturali. Per nostra fortuna l’ammontare dei sacrifici richiesti è molto inferiore a quello dei principali partner europei ma è chiaro che solo con interventi di natura diversa si potranno attuare vere riforme che il governo continua a promettere ma non riesce a varare