Lettere in redazione
Manovra, costi della politica e futuro del Paese
Sacrifici, sacrifici, sacrifici. E così quello che veniva negato ed esorcizzato, fino a qualche tempo fa, dal governo Berlusconi sulle preoccupanti ripercussioni nel nostro Paese della grave crisi economica internazionale si è puntualmente verificato. Vengono sconfessate le dichiarazioni che paradossalmente invitavano alla fiducia, nonostante l’incapacità della compagine ministeriale ad affrontare la più turbolenta situazione finanziaria e sociale degli ultimi cinquant’anni.
« Sono stati messi in sicurezza i conti pubblici al riparo di brutte sorprese legate alla crisi economica e alla speculazione(Tremonti), senza mettere le mani in tasca agli italiani (Berlusconi)». Invece la manovra rischia di sfondare le tasche – per altro già vuote - di gran parte degli italiani. I provvedimenti emanati, dopo un inconcludente e pletorico confronto con le parti sociali (ancor meno con le opposizioni parlamentari), possono provocare, se non emendati, la « distruzione dello stato sociale». La riduzione dei «costi della politica», seppur apprezzabile (ma tutta da verificare) è stata determinata dalla forte pressione popolare esercitata dall’opinione pubblica. Da parte del Governo è mancato invece quel «piano straordinario», più volte evocato, per dare corpo e sostanza a scelte per far progredire il lavoro, l’occupazione, l’innovazione, lo sviluppo, senza le quali non è pensabile con i soli tagli risanare il debito pubblico e rilanciare la crescita economica.
Nella presentazione della manovrasi è fatto appello alla «responsabilità di tutti», perché sono in gioco le sorti del Paese. Ma le decisioni assunte sono state caratterizzate dalla presunzione politica della maggioranza governativa «di fare tutto da sé», senza implicare come richiederebbe l’enorme portata delle misure l’opposizione, probabilmente maggioranza, oggi, nel Paese dopo i recenti risultati dei referendum e delle ultime elezioni amministrative.
Il nostro Paese, ormai in coda al G7, e in pratica sotto commissariamento della Banca centrale europea, ha estrema necessità del massimo coinvolgimento di tutte le forze politiche, pur tenendo conto dei ruoli istituzionali «di parte» e di rappresentanze sociali diverse. Occorre « sortirne insieme » dalla gravissima situazione del debito pubblico che sta minando il nostro sistema, precludendo ognipossibile crescita. Si tratta di portare un contributo consapevole e responsabile per correggere il decreto anticrisi ad invarianza di finalità economiche con provvedimenti ispirati all’equità, alla sostenibilità, all’efficacia e alle attese dei partner europei. Meglio se accompagnati anche dalla riforma della legge elettorale che restituisca ai cittadini elettori un ruolo più diretto di partecipazione alla vita democratica del Paese.
La preoccupante situazione del nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. La crisi economica è solo l’ultimo risultato di un percorso che viene da molto, molto lontano nel tempo e le cui responsabilità sono molteplici e di ogni colore politico. Mi limito ad osservare, e credo che non si possa affermare il contrario, che la classe politica, via via nel ruolo di maggioranza o di opposizione, è sempre la stessa, composta nei ruoli principali e nella guida dei partiti sostanzialmente dalle stesse persone ormai da più di vent’anni. Ora mi chiedo, è possibile che la stessa classe politica che ci ha governato per tutti questi anni, che non ha saputo prevedere le varie crisi economiche che ci hanno afflitto, che non ha saputo trasformare il paese dal punto di vista delle infrastrutture e dell’organizzazione, che ha trascurato quasi completamente il controllo del territorio, che ha saputo distinguersi unicamente per la litigiosità e per una impressionante serie di scandali e situazioni deprecabili, sia la stessa che pretende di salvare il paese?
Vede, Direttore, io non ne faccio una questione di costi della politica, pagherei molto volentieri una classe politica che fosse veramente motivata al bene comune ma anche preparata, competente ed autorevole. Ma il punto è proprio questo, lo stato in cui ci troviamo ci dimostra che questa classe politica non ha saputo essere all’altezza, nè tecnica nè morale, del compito affidatole e se non vogliamo parlare di colpa senz’altro ha la grave responsabilità della situazione in cui versa soprattutto la parte più debole della popolazione per la quale non solo si aggrava il presente ma cresce l’incertezza per il futuro.
Credo che manchi, oltre a moltre altre cose, anche la dignità di fare un passo indietro, di riconoscere la propria incapacità ad affrontare la situazione, l’umiltà di dare spazio alle persone veramente capaci e disinteressate che certamente ci sono in ogni schieramento politico. Ci troviamo invece di fronte ad un comune arroccamento nelle proprie posizioni, fatto di forzoso finanziamento ai partiti, di liste bloccate e stilate dalle segreterie, di accordi sotterranei finalizzati allo status quo nel disprezzo del significato delle istituzioni.
La prima riforma dei costi della politica non è il numero dei parlamentari o l’abolizione delle Province, ma la definizione di nuovi rapporti tra politica ed affari, sapendo che già dalla prima repubblica si è consolidata una deteriore cultura alimentata dalla presenza diretta dei partiti nell’economia attraverso le banche, le partecipazioni statali e le cosiddette «imprese di riferimento». In Italia è convinzione radicata che la politica possa aiutare l’andamento dell’impresa, a maggiore ragione nei settori che forniscono opere e forniture per la pubblica amministrazione o in concessione come la stessa edilizia.
I problemi non derivano solo dai costi diretti delle istituzioni, dal finanziamento di onerosi apparati di partito o dalle moderne campagne elettorali che rispondono a logiche di marketing, ma soprattutto dall’esigenza di «soddisfare» l’oscuro sottobosco clientelare che sostiene le reti di relazioni degli uomini politici (con lobby, corporazioni e massonerie trasversali di vario tipo) che chiedono incessantemente di lucrare affari, cariche, incarichi professionali e posti di lavoro.
La situazione è peggiorata negli ultimi venti anni dalla rarefazione della partecipazione e con la fine dei partiti di massa, trasformatisi in cartelli elettorali controllati da ristrette oligarchie, con una carente selezione della classe dirigente scelta, non per merito, ma per cooptazione in base della conformità al gruppo dirigente.
In passato, l’esigenza di rispondere a forti sistemi valoriali di riferimento e ad una forte militanza, limitava la «dipendenza» dei politici dal mondo economico, anche se sono sempre esistiti affaristi e «salotti» influenti dove scambiare favori; la posizione egemone dei partiti della prima repubblica li rendeva infatti autonomi anche se non estranei agli interessi dell’economia, dando la possibilità ai politici che lo avessero voluto, di resistere alle pressioni del mondo economico in difesa del bene comune.
Di fronte alla crisi del debito pubblico, il primo solenne impegno di un governo di «larghe convergenze» dovrebbe essere quello di «liberare» le opere pubbliche dalle tangenti, che sarebbero così realizzate esclusivamente nei tempi tecnici strettamente necessari, rispettando i costi di mercato, risparmiando così tempo e denaro, ma soprattutto bonificando una palude di interessi foriera di ulteriori sprechi ed inefficienze. Obiettivo impossibile ? Ricordo che l’Autostrada del Sole fu realizzata da Milano a Napoli in soli sette anni.
La responsabilità delle istituzioni e l’interesse pubblico sono beni così preziosi e prestigiosi che devono «bastare» alla politica. La legittimazione non viene dalla contiguità con il mondo degli interessi particolari, ma solo dal consenso dei cittadini alla costruzione del bene comune: posiamo essere certi della rinascita della partecipazione politica se sinceramente ricercata e voluta!
Sono molte le lettere sulla manovra economica e sui costi della politica arrivate in redazione. Spesso si tratta di interventi piuttosto lunghi e articolati. Segno di un rinnovato interesse per le sorti del nostro Paese, di una voglia di dibattito, ma anche di una crescente sfiducia nell’intera classe dirigente italiana. Lo spazio ci permette di pubblicare (nonostante qualche taglio) solo alcune di queste lettere. Mentre per quanto ci riguarda (oltre a rimandare ai vari commenti che in questo numero affrontano l’argomento da varie sfaccettature) non possiamo che condividere le preoccupazioni per una manovra che non tiene conto della famiglia (unico vero ammortizzatore sociale) e che sembra colpire ancora una volta chi le tasse le paga di già mentre si continua a tollerare il «nero» e l’evasione fiscale a tutti i livelli. E qui un po’ di colpa ce l’abbiamo anche noi cattolici: dovremmo essere i primi a fare e a pretendere ricevute e scontrini. Che fine ha fatto l’educazione alla legalità?
Andrea Fagioli