Opinioni & Commenti
Mandela, il miracolo dell’uomo senza volto
Dopo aver vinto è stato uno dei pochissimi leader africani a non volere governare a vita, ma appena quattro anni nonostante che fosse ormai una leggenda. È stato fra i leader africani della decolonizzazione colui che è riuscito ad ottenere la libertà per il suo popolo con il più basso tasso di violenza possibile. Al processo che lo condannò all’ergastolo nel 1964 Mandela si assunse la responsabilità solo degli atti di sabotaggio contro le cose respingendo le accuse di violenza contro le persone. E di fatto la non violenza assoluta e poi il sabotaggio furono le armi di battaglia di Mandela prima che i massacri terribili come quello di Sharpeville (69 neri uccisi) e quello di Soweto (575 neri uccisi) spingessero anche l’organizzazione militare del Congresso Nazionale Africano verso la violenza nei confronti delle persone quando già Mandela era in carcere.
Ma per quanto possa sembrare paradossale l’opera di Mandela è dal punto di vista personale addirittura più innocua e più innocente perfino di quella dei grandi protagonisti della non violenza. Per ventisette anni Mandela non ha fatto altro che vivere in un carcere senza orologio e senza calendario, quasi messo fuori del tempo, e cercando di muovere i suoi quasi due metri di altezza in una umida scatola di cemento di due metri per due. Eppure Mandela ha mosso il mondo intorno alla sua causa senza allontanarsi un solo giorno dalla sua cella nell’isola di Robben Island, senza potere mandare un messaggio nemmeno in una bottiglia, senza affacciarsi un solo minuto ad una televisione. Era proibito fotografare Mandela. Di giornali poteva leggere per caso solo quelli in cui era avvolta la colazione dei suoi secondini. Gli era vietato comunicare con l’esterno. Perfino sua moglie poteva parlare con lui per mezz’ora ogni sei mesi in quella isola maledetta in mezzo all’oceano che prima di lui aveva ospitato una colonia di lebbrosi.
Mentre ogni politico chiede soprattutto «visibilità» il miracolo di Mandela è stato quello di aver fatto di un uomo senza volto, senza voce e senza movimento un simbolo mondiale reso quasi immateriale e invisibile della libertà e della giustizia. Durante quasi trenta anni per liberare il suo popolo Mandela ha fatto una cosa sola: ha sofferto. Per questo Mandela è stato l’esempio per tanti aspetti consolante della capacità di conquistare il mondo da parte di quella che Luther King chiamava la «sofferenza immeritata», che secondo il pastore di Atlanta era così potente proprio perché così era stato per la vittima più nota di tutte le vittime.
In sostanza l’ergastolo di Mandela è stato per certi aspetti la sua crocifissione. Anche lui ha vinto perdendo e quella che doveva essere la sua punizione è stata il suo trionfo. Dalla sua persona imprigionata è uscita l’idea del «giusto giustiziato» che conquistò il mondo. Mandela era in carcere e a questo carcerato si intitolavano strade in Europa, si concedevano le cittadinanze onorarie di città come Roma, Firenze, Glasgow, Olimpia, e le lauree honoris causa del City College di New York e dell’università di Strathclyde in Scozia. Per lui marciavano in America i figli dei Kennedy e i figli del presidente Carter. Per questo sconfitto in brache corte di tela si scrissero canzoni come per i guerrieri di una volta. In quel periodo non c’è stata quasi nessuna delle grandi rockstar, che sono un po’ i predicatori della nostra epoca, che non abbia dedicato una canzone a Mandela: da Peter Gabriel a Sting, da Elvis Costello a Stevie Wonder, da Sade Adu a Boy George passando per i grandi miti di colore come Mirian Makeba e Herry Belafonte e giungendo infine al concerto di Wembley dell’11 giugno 1988 con settantamila spettatori e ripreso da tutte le televisioni del mondo.
Il miracolo di Mandela è stato quello di dimostrare che un giusto può crearsi una opinione pubblica mondiale. Anche i governi alla fine dovettero adeguarsi stabilendo uno dopo l’altro sanzioni al Sudafrica razzista per soddisfare un sentimento universale che alla fine univa Oriente e Occidente. A Mandela dobbiamo dire grazie per averci dato questa grande manifestazione della globalizzazione della verità e della giustizia. È in fondo per merito di questo suo straordinario esempio che possiamo sperare un po’ di più di più nel futuro del mondo e nella coscienza di ognuno dei suoi miliardi di uomini. Il secondo riconoscimento che dobbiamo a Mandela è quello di essere stato un uomo che per la prima volta ha chiuso una guerra civile senza vendicarsi dei suoi nemici.
L’esempio è sconvolgente non solo per l’Africa dove quasi sempre il sangue di un conflitto si paga con il sangue dei vinti, ma anche per il resto del mondo dove le guerre civili sono finite con la «giustizia» dei vincitori. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione che Mandela volle istituire dopo la fine dell’apartheid chiedeva solo che ogni colpevole da una parte e dall’altra confessasse pubblicamente le sue colpe e chiedesse perdono per essere assolto. Il giorno della inaugurazione della Commissione, Mandela volle che accanto a lui, come il buon ladrone, ci fosse il suo carceriere. Poi lui stesso ammise le sue colpe come sua moglie Winnie.
Questa scelta fu certamente suggerita anche dall’opportunità politica di riconoscere impossibile la punizione dei così tanti colpevoli che con le loro confessioni davanti alla Commissione alla fine avevano riempito 2.700 pagine. Né staremo qui a discutere se questa nuova giustizia che è stata presa ad esempio poi per tante situazioni simili abbia soddisfatto le vittime e conciliato gli animi di questo mondo. E tuttavia è certo che, almeno nelle intenzioni dell’arcivescovo Desmond Tutu che presiedeva la Commissione, questa assoluzione data in cambio di una confessione pubblica come nel caso dei primi cristiani, fu anche un tentativo religiosamente ispirato di allontanarsi dalla giustizia umana sempre risarcitoria per avvicinarsi alla giustizia di Dio che può anche rimettere a noi i nostri debiti. Lo stesso Tutu, nel suo libro «Non c’è futuro senza perdono», ha ammesso che quella esperienza di riconciliazione è stata ispirata anche dalla consapevolezza che Dio, proprio perché «non rinuncia facilmente a nessuno (…) ha, in contrasto con i criteri del mondo, un debole per i peccatori».