Cultura & Società
Mancini, in campo anche nel giorno della Prima Comunione
Non solo: per 35 anni don Roberto, su incarico dei vescovi marchigiani, ha anche ricoperto il ruolo di consulente ecclesiastico regionale del Centro sportivo italiano, ricevendo alla fine il «discobolo d’oro» come riconoscimento. Assieme al nome e al quartiere, con Mancini ha dunque anche in comune lo sport nel sangue. Per questo è ben contento di essere stato «scovato» da noi e invitato a rievocare quei tempi, oggi che Jesi, dal punto di vista sportivo, è di nuovo sulla cresta dell’onda per le prodezze schermistiche della Vezzali e della Trillini.
«L’Aurora racconta il sacerdote contava dalle 5 alle 7 squadre di calcio, la maggiore delle quali ha raggiunto anche il campionato di Promozione. Una vera e propria scuola dove Roberto pian piano è maturato». Di certo l’aiuto del «don» suo omonimo non è mancato, ma neppure la complicità. «Ha avuto sempre in testa il pallone rammenta l’anziano parroco e anche il giorno della prima Comunione, a 8 anni e mezzo, l’ho fatto giocare… prendendomi pure una sgridata da suo padre!». E rievoca, divertito: «Avevamo fatto la funzione religiosa la mattina presto, alle 8, per cui alle 10 eravamo già nel piazzale con tutti i genitori a farsi foto, in attesa di andare a pranzo. I ragazzini di 9-10 anni della nostra squadra intanto giocavano. A un certo punto arriva uno e mi dice: Don Roberto, stiamo perdendo! Perché non ci manda Roberto Mancini?. Io lo chiamo e gli dico: Ma come fai ad andare a giocare oggi?. Mi sono portato la roba, è negli spogliatoi, mi risponde. Si è tolto l’abito della Comunione e ha giocato il secondo tempo con il… favoloso numero 10. Stavano perdendo 2 a 0 e la partita è finita col pareggio 2 a 2 con i 2 gol fatti da lui!».
Ma l’oratorio, naturalmente, non era solo calcio. «Quando la sera tardi rimandavamo i ragazzi a casa, Roberto addirittura non ci voleva tornare! Da noi si facevano catechismo e varie attività, compreso il canto, e lui cantava anche nella Pratolina d’oro, che era un po’ il nostro Zecchino d’oro. Per vent’anni ho fatto canzoni per bambini e una volta all’anno, finite le scuole, a giugno, 220 ragazzini cantavano su musica e parole mie». Del resto Jesi, città di Giambattista Pergolesi e Gaspare Spontini, non era certo l’ultima arrivata nel mondo delle sette note…
Mancini, però, era nato «con il pallone nel sangue» e questo finì per prevalere non solo sulle… virtù canore, ma anche sulla scuola. «La maestra ricorda ancora don Bigo voleva che studiasse di più, ma lui preferiva di gran lunga il calcio. Giocava anche da solo, faceva il battimuro, il pallone era… la sua innamorata!». Così verso i 14 anni andò al Bologna. «Avevo lì diversi miei cugini, suoi fans, che, quando la squadra non andava bene, si mettevano a urlare all’allenatore di allora, Tarcisio Burgnich: Manda dentro il bimbo. E lui magari entrava negli ultimi minuti e a volte faceva anche gol». Tornava in parrocchia soprattutto d’estate, e magari giocava in qualche torneo notturno.
«Mi ricordo continua ancora il parroco che una volta parlavamo, e gli dissi: Guarda che in questi tempi nel calcio vanno forte le coppie, il duo, cercati qualcuno. Non a caso, alla Sampdoria nacquero i gemelli del gol, lui e Vialli». Poi arrivò anche la vera anima gemella, un’altra innamorata… oltre al pallone. E don Bigo, dopo aver benedetto a Jesi le nozze dei genitori di Mancini, Aldo e Marianna, è orgoglioso di aver concelebrato anche il matrimonio fra Roberto e Federica Morelli. «Si erano conosciuti in montagna e si sono sposati a Quarto, proprio nella chiesa da dove è partito Garibaldi per la spedizione dei Mille».
Ora i legami si sono inevitabilmente un po’ allentati: la vita familiare (movimentata da tre figli) nonché quella professionale hanno imposto a Mancini i suoi ritmi e i contatti con la sua città natale si sono fatti meno frequenti. «È tanto che non ci vediamo, da almeno 3 anni», dice il parroco. E spiega: «Qui Roberto e Federica vengono di sfuggita, salutano i genitori di lui e poi se ne vanno».
Così siamo noi a portare al tecnico della Fiorentina, prima dell’allenamento quotidiano, i saluti e gli auguri anticipati di don Bigo. Che li accoglie ben volentieri, tornando con la mente al passato. «In parrocchia si stava molto bene, c’era tutto per i ragazzi: fatti i compiti si andava a giocare a calcio o a pallacanestro, c’erano tanti divertimenti e nessun pericolo. Io stavo sempre lì e, come gli altri, preferivo giocare che studiare». Ma non era solo una questione di divertimento. «Mi è servito molto frequentare l’oratorio. Anzi sottolinea Roberto ho avuto modo di notare che adesso non ci sono più tanti ragazzini come una volta: non è una cosa positiva: a stare lì si cresce meglio».
E anche se da calciatore qualche atteggiamento «sopra le righe» non è mancato, il suo vecchio parroco è pronto ad assolverlo: «La verità è che era un po’ timido, riservato, ma quando cominciava a giocare diventava grintoso». E, quasi a voler fornire ulteriori «garanzie», sottolinea: «Tempo fa su una rivista ho letto questa frase attribuita a Mancini: Io ogni sera prego insieme ai miei bambini, li educo a pregare come mi hanno insegnato. Ecco, di questo mi vanto. Del pallone, invece, non è merito mio». «Comunque sia ribadisce il mister quella dell’oratorio è un’esperienza che lascia il segno: perché al di là del fatto che cerca di darti una buona educazione, è importante lo stare vicino a persone con principi sani. Principi che adesso, da allenatore, cerco di mettere in pratica». Anche quello di non bestemmiare? «Non ho mai bestemmiato, non l’ho mai fatto». Il che nel mondo del calcio, e soprattutto se ci consentite nell’attuale situazione della squadra gigliata, non è davvero cosa da poco….