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Mali, il rischio di una guerra che provochi altre guerre senza risolvere nulla
Formalmente la guerra nel Mali sembrerebbe avere tutte le carte in regola. L’intervento delle truppe straniere nel paese, in pratica della Francia e dei paesi africani vicini, per combattere i gruppi islamisti che stanno invadendo il paese dal Nord è stato autorizzato all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e salutato con favore dai paesi dell’Unione Africana.
I paesi confinanti offrono le basi alle truppe francesi e l’Algeria mette a disposizione il suo spazio aereo. E tuttavia questa guerra non è facile, non sarà risolutiva e non era inevitabile. Il regime di Diacunda Troorè, l’attuale presidente la cui legittimità è almeno dubbia essendo stato nominato capo dello stato da una giunta militare nel marzo dell’anno scorso, è un aggeggio debole efragilissimo.
Sono bastati poco più di mille uomini delle milizie islamiche per mettere in rotta l’esercito governativo in pochi giorni all’inizio di questo mese. In pratica il Mali è uno di quegli «stati falliti» incapaci di imporre la propria autorità nel paese. Da Questo punto di vista il Mali è un Afganistan bonsai e dall’Afganistan tutti hanno ormai imparato, dopo dieci anni di tentativi quasi inutili, quanto sia difficile ricostruire dall’esterno uno stato che non c’è.
I francesi, secondo lo stile degli eserciti occidentali che ormai combattono solo dall’alto dei cieli, si limitano a bombardare i ribelli colpendo anche inevitabilmente la popolazione civile. E se le vittime dei raid sono per ora limitate i profughi sembrano già essere centinaia di migliaia. Le truppe messe a disposizione del Palazzo di Vetro dagli stati africani ( Nigeria, Togo, Niger, Burkina Faso, Benin, Ghana, Guinea, Senegal) per riportare ordine nel paese e che con molta lentezza e parsimonia al momento sono entrate in scena sono state finora sempre adoprate dall’Onu in altri paesi del continente nero in compiti di interposizione fra i contendenti e mai sul campo di battaglia dove la loro efficacia è molto dubbia.
E la storia del Mali dimostra che una guerra tira l’altra come le ciliegie e che la guerra non è né l’origine né la soluzione di un problema. Per certi aspetti la guerra nel Mali è l’appendice della guerra in Libia appena e a malapena conclusa. La guerra in Libia ha permesso a molti tuareg impegnati su quel fronte, una volta eliminato Gheddafi, di trasferirsi con più armi che bagagli nel Mali cercando di adoprare gli arnesi del mestiere imparato a Tripoli e dintorni in una nuova e altrettanto sanguinosa occupazione.
E ora ricostruire lo stato del Mali sarà impossibile senza ricostituire la società e l’economia di un paese devastati non solo da una guerra di un mese ma anche da condizioni planetarie e da scelte imposte dal di fuori che hanno alle spalle decenni. La guerra nel Mali infatti impasta insieme allo scontro ideologico fra fondamentalisti e laici i contrasti sempre più acuti di tutti i paesi in via di desertificazioni: conflitti fra pastori e agricoltori per l’uso della poca terra che ancora non è sabbia, per il controllo dell’acqua sempre più scarsa, per la sopravvivenza precaria in città sempre più affollate. Negli anni Ottanta i programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo Monetario Internazionale hanno in pratica distrutto la scuola e la sanità statale affidando questi servizi alle associazioni private e al proselitismo del fondamentalismo islamico generosamente finanziato dall’esterno. Liberalizzando il commercio del cotone con la diminuzione del prezzo si è ulteriormente incentivato l’esodo rurale.
Attualmente ai disperati del paese si offrono solo quattro possibilità: il richiamo al tradizionalismo islamico, la guerra come mestiere, il traffico della droga, l’emigrazione. Finché non si offrirà una risposta che comprenda lo sviluppo nessuna di queste scelte e tanto meno la guerra riuscirà a ricomporre uno stato e una società in frantumi. E questo del Mali è purtroppo uno scenario che si ripete in quasi tutti i paesi del Sahel.