Prato
Malaparte, la Biblioteca di via Senato deve ancora catalogare l’archivio ma intanto scopre un inedito dello scrittore pratese
L’archivio Malaparte non si trova a Prato, ma a Milano, custodito nella Biblioteca di Via Senato di Marcello Dell’Utri, che l’acquistò nel 2007 per 700mila euro. Nel 2012 l’allora sindaco Roberto Cenni si fece avanti per ricomprare quelle «preziose» carte, la proprietà sembrava anche intenzionata a vendere, ma non se ne fece nulla. Oggi Dell’Utri si trova in carcere a Rebibbia, «ha altro a cui pensare», ci hanno detto dalla Biblioteca di Via Senato, ma intanto l’ex curatore dell’archivio, lo storico Matteo Noja, ci conferma l’estremo interesse che l’opera dello scrittore pratese suscita negli studiosi di tutto il mondo. «Qui a Milano vengono molti studenti e professori a leggere i documenti del fondo Malaparte, – spiega Noja, che non lavora più alla Biblioteca ma aiuta molti studenti nelle loro ricerche malapartiane – a breve sarà pubblicata la tesi di una studentessa italiana che si laurea in Francia, ogni due mesi c’è la visita di una giovane studiosa belga, a settembre tornerà un noto professore della New York University per continuare le proprie ricerche». Insomma l’archivio è ancora accessibile e consultabile, nonostante i guai giudiziari di Dell’Utri.
Composto da trecento faldoni, questo fondo ha ancora bisogno di una catalogazione completa. «Ne è stata fatta una sommaria dagli eredi in vista della vendita – afferma Noja – ma è incompleta. Noi avevamo presentato un progetto per catalogare la corrispondenza, poi, quando Dell’Utri fu recluso, la soprintendenza ci vietò di toccare le carte». Secondo lo storico tra le carte di Malaparte in possesso della Biblioteca non dovrebbero trovarsi inediti. «Gran parte del materiale è stato pubblicato dalla sorella Edda in dodici volumi – continua Matteo Noja -, mentre riveste un assoluto interesse la parte delle lettere. Siamo arrivati a contare più di tremila nomi di corrispondenti diversi, tra questi ci sono politici, letterati di tutta Europa e persone comuni. Secondo me le lettere inviate da semplici cittadini sono di grandissimo interesse. Risalgono al periodo 1955-1957, quando Malaparte curava la rubrica Battibecco sulla rivista Il Tempo Illustrato, quelle missive rappresentano uno spaccato d’Italia, superiore a qualsiasi saggio sociologico e storico. In quel periodo Malaparte si interessava ai problemi della gente, pensi che aveva addirittura un ufficio aperto al pubblico presso il Ministero dell’Interno quando c’era Tambroni. Quella corrispondenza ci fa capire come gli italiani si siano emancipati dai problemi della guerra e abbiano dato vita ad un inaspettato boom economico».
Poi, dentro l’archivio, ci sono testi manoscritti, progetti teatrali e cinematografici mai realizzati. «E molte fotografie, come quelle dei funerali (celebrati a Prato il 21 luglio 1957 NdR)», aggiunge ancora Noja. Tra le carte anche la tessera del partito repubblicano, al quale aveva aderito da giovanissimo ma senza iscriversi, rilasciata nel 1957 poco prima di morire. Ma si dice che ne suoi ultimi giorni Malaparte abbia ricevuto anche la tessera del partito comunista – «per quella chiedete a Giordano Bruno Guerri, dovrebbe averla lui», afferma Noja – e si sia convertito al cattolicesimo grazie alla vicinanza di padre Virginio Rotondi, gesuita e noto conduttore radiofonico, conosciuto come il «microfono di Dio». Il religioso avrebbe impartito nella clinica romana Sanatrix i sacramenti del battesimo, cresima e comunione allo scrittore nelle sue ultime ore di vita. Una vicenda ancora oggi controversa. «A questo proposito posso solo dire che in quei giorni Malaparte non era molto lucido – conclude lo storico Matteo Noja – quando tornò malato dalla Cina in molti si approfittarono della situazione tirandolo per la giacchetta. Ma se posso dire la mia penso che Malaparte fosse protestante». In che senso? «Nel senso vero della parola, non a caso sceglie di chiamarsi Malaparte proprio per questo: in Italia dopo i Bonaparte abbiamo i Malaparte». Gli uomini liberi, quelli che ne hanno per tutti e non sono ascrivibili a nessuna parte politica.
L’autobiografia di Gino Bartali è opera della scrittore pratese
Dall’archivio Malaparte non dovrebbero spuntare inediti, anche se la Biblioteca di Via Senato potrebbe comunque assestare un «colpaccio». Anni fa, l’istituzione fondata da Marcello Dell’Utri acquistò da un privato un dattiloscritto in lingua francese, venduto ufficialmente come una autobiografia di Gino Bartali. «Già il proprietario ne aveva il sospetto e anche io che l’ho visionato confermo: secondo me si tratta di un’opera scritta da Curzio Malaparte», dice l’ex curatore dell’archivio Matteo Noja. «Gli indizi sono due: il tipo di carta, gialla paglierina, la stessa usata dallo scrittore, ma soprattutto i caratteri della macchina per scrivere, simili ad altri testi scritti da Malaparte nello stesso periodo», dice ancora lo storico. Il testo dovrebbe essere stato scritto nel 1948, all’indomani del trionfo di Bartoli al Tour de France, una impresa epica che secondo molti osservatori stemperò le tensioni politiche e sociali dopo l’attentato a Togliatti. Su Bartali e sul suo dualismo con Coppi, Malaparte pubblicò un libro in francese, per l’appunto, nel 1949, poi tradotto in italiano da Adelphi soltanto nel 2009.