Cultura & Società
Malaparte, Igor Man: «Fu vera conversione»
DI GIANNI ROSSI
Un tormentato ma sincero approdo che corona all’improvviso una vita spregiudicata e romanzesca o l’ultima scioccante giravolta dell’«arcitaliano» per antonomasia? Un’interiore esperienza forgiata dalla malattia o una furbesca invenzione architettata da abili gesuiti con la complicità del Vescovo Fiordelli e la regia del Vaticano? La conversione di Curzio Malaparte continua a far discutere, nei giorni dell’anniversario della morte, avvenuta il 19 luglio 1957. Se ne parlò, anche su questo giornale, lo scorso anno, in occasione del cinquantesimo della scomparsa del grande scrittore pratese. C’è chi, ancora, a quella scelta di fede, estrema solo perché sul finale della vita, non vuole credere. Paradossalmente i più scettici sono coloro che a Malaparte hanno dedicato le biografie più complete: il dissacratore per eccellenza, Giordano Bruno Guerri (sua la «Vita di Curzio Malaparte») e il noto studioso Luigi Martellini, che ha curato le «Opere scelte» per i Meridiani Mondadori. Quest’ultimo in quel prestigioso testo scrive: «Risulterebbe anche una conversione al cattolicesimo, ad opera del gesuita padre Virginio Rotondi, sulla quale sono stati espressi molti dubbi per mancanza di testimonianze». Eppure non furono pochi coloro che videro e riferirono. Il Vescovo di Prato Gastone Simoni, proprio nel cinquantesimo, volle celebrare in Duomo, alla presenza di alcuni familiari, una messa di suffragio. «Noi rimettiamo tutto ebbe a dire il presule nelle mani del Signore, perché soltanto lui vede nel profondo dell’anima. Ma perché dubitare di testimonianze di persone autorevoli che non raccontavano certo favole? Noi di quei fatti prendiamo atto». E ancora: «Certo, la discussione sulla conversione può essere sempre aperta. Ma non vorrei chiosò in conclusione Simoni, citando il film dello scrittore, Il Cristo Proibito che ci fosse una sorta di Malaparte proibito: non quello messo all’Indice, secondo usi del passato, ma quello approdato a Cristo».
Uno dei testimoni era allora un giovane giornalista avviato verso un brillante avvenire professionale. Cinquant’anni dopo, quando quella carriera lo ha portato ad essere una delle più prestigiose firme del giornalismo italiano, Igor Man accetta volentieri di parlare del suo «grande maestro», Curzio, come lo chiama con fare familiare. «I suoi insegnamenti mi accompagnano ancora», ci confessa. Qualche mese fa gli ha dedicato su «La Stampa», il quotidiano che Malaparte diresse a soli trentun’anni, un ampio articolo-testimonianza. Sì, Malaparte ormai prossimo alla morte volle abbracciare la fede. Riecheggiando, senza saperlo, le parole di mons. Simoni, Igor Man ribadisce: «Nel cuore dell’uomo vede soltanto Dio. A noi sta attenersi ai fatti. Io, quando seppi che Malaparte si era convertito, non mi stupii per niente».
Giornalista del quotidiano «Il Tempo» di Roma, Man conobbe Malaparte all’inizio degli anni Cinquanta, quando il direttore Renato Angiolillo presentò alla redazione intera lo scrittore pratese: «Sarà il nostro collaboratore principe», furono le sue parole. «Allora io scrivevo elzeviri, che prendevano le mosse da fatti di cronaca. Malaparte racconta Man li apprezzava molto, così un giorno fui invitato a colazione a casa del critico letterario del Tempo, Enrico Falqui, un vero e proprio «guru» dell’intellighenzia di allora. Lì prosegue ebbi modo di conversare con Curzio e di conoscerlo da vicino. Da allora iniziò una frequentazione e un’intensa amicizia che durò fino alla morte».
I contatti tra i due furono interrotti quando lo scrittore toscano decise di partire per il lungo viaggio in Cina. Dietro l’angolo un terribile tumore gli stava preparando però l’agguato. Cinque mesi e dovette rientrare in Italia. «Ero ad accoglierlo all’aeroporto. Con pochi altri racconta Man avevo libero accesso alla sua camera nella famosa clinica Sanatrix di Roma. Mi fermavo a lungo a parlare con Curzio. Quando mi congedavo, correvo nella hall, prendevo della carta e raccoglievo immediatamente i passaggi salienti delle nostre conversazioni. Percepivo che in quelle lunghe settimane era come avvolto dalla spiritualità. Stava riscoprendo sé stesso come uomo debole, tormentato dal dubbio, ma ormai di fronte agli eventi decisivi della sua esistenza».
Già eccoci al punto la conversione e la morte. «Poche settimane prima della sua dipartita racconta ancora Igor il direttore del Tempo mi inviò a fare una corrispondenza dalla Virginia, negli Usa. Appresi della morte di Malaparte durante il viaggio di ritorno, quando la nave stava ormai per approdare. Al dolore si aggiunse il dispiacere di non averlo potuto rivedere. Nei giorni successivi, quando la notizia della conversione si era già diffusa ampiamente, chiesi ad Aldo Borrelli, storico direttore del Corriere della Sera e grande amico dello scrittore, se la vicenda della conversione fosse vera». Borrelli non esitò, per la confidenza che aveva col seppur giovane collega, a confidare un episodio intimo e struggente. Prosegue Igor Man: «Malaparte era sotto la tenda ad ossigeno e non riusciva praticamente più a parlare. Non ricordo quale, ma sicuramente era uno degli ultimi suoi giorni di vita. Borrelli che ne aveva percepito il percorso spirituale, gli disse: Curzio, mi riconosci? Facciamo una cosa. Io ti farò delle domande. Tu poggia la tua mano sul mio polso. Se è sì, batti col dito una volta, se è no batti due volte. I suoi occhi mi testimoniò Borrelli erano un braciere. Malaparte confermò di aver capito con un primo colpetto. Borelli gli chiese: Vuoi bene a Gesù?. Tac, un colpo sul polso. E ancora: Hai deciso di convertirti?. Tac, un secondo colpo. Che nome ti sei dato? Il nome di tuo fratello (Sandro, morto giovane, ndr)? Tac, un terzo colpo di approvazione. La mano si allentò e Borrelli scoppiò a piangere. Fu, quello, il linguaggio Morse della pietà e dell’amicizia». Qualche settimana dopo, Igor Man si ritrovava con gli amici di sempre e Maria Suckert, la sorella preferita di Malaparte, che lo aveva assistito fino all’ultimo. «Non ricordo chi le chiese della conversione e del battesimo. Lei, che era stata testimone diretta degli ultimi avvenimenti del fratello, confermò tutto».
Igor Man, figlio di uno scrittore siciliano e di una nobile russa esule in Italia, è una «firma storica» del giornalismo italiano. Nato nel 1922, subito dopo la Liberazione, giovanissimo, entra ne «Il Tempo» di Roma. Qui conobbe Curzio Malaparte, allora la firma più prestigiosa del quotidiano. Nel 1963 Giulio de Benedetti lo chiama alla «Stampa» dove lavora tutt’ora come editorialista e inviato. «Mi fu proposto di andare corrispondente a Parigi. Io non accettai, perché volevo girare il mondo come inviato. Mi appassionava l’uomo», ci racconta. Ha dato testimonianza degli accadimenti più significativi degli ultimi 50 anni: dalle guerre meridionali, al Vietnam, dall’Africa all’America Latina, sopravvivendo all’assedio di Camp Kannack (Vietnam) e al plotone di esecuzione (Sudan). Ha intervistato personaggi come Kennedy, Krucëv, il «Che», Madre Teresa, Golda Meir, Gheddafi, Padre Pio, Khomeini, Arafat, Shimon Peres. Studioso delle religioni, è tra i massimi esperti del mondo islamico. Autore del longseller Diario arabo (Bompiani, 1992), ha vinto fra gli altri il Premio Hemingway, il Premio Colomba d’Oro per la Pace (ex aequo con Amnesty International) e il Premio Internazionale St. Vincent alla carriera. L’Università internazionale Giorgio la Pira lo ha nominato, insieme con l’Abbé Pierre, «Artisan de la Paix» nel 2000.