Vita Chiesa
Maffi, il cardinale scienziato entrava a Pisa cento anni fa
Nato a Corteolona, provincia e diocesi di Pavia, allevato in una sana famiglia contadina, segnato dalla malattia nell’infanzia ed adolescenza (la paresi alla gamba destra gli lascerà una caratteristica andatura per tutta la vita), Pietro Maffi fu ordinato sacerdote il 16 aprile 1881 e si laureò in Teologia, a Milano, nel 1899. Insegnante di filosofia, matematica e fisica nel seminario pavese, qui comparvero i suoi primi scritti, sia letterari che scientifici, tra cui il celebre «Nei cieli: pagine di astronomia popolare», che raggiunse ben sei edizioni fino al 1933.
Chiamato all’ufficio di Vicario generale di Ravenna («la Cina d’Italia», secondo Leone XIII) dall’arcivescovo Agostino Riboldi, già suo vescovo a Pavia, ne divenne Amministratore apostolico per la morte di questi, il 30 aprile 1902, per venirne consacrato vescovo ausiliare il 9 giugno. Ma non doveva restarci per molto: il 19 maggio 1903 il Maffi veniva nominato arcivescovo di Pisa, sede vacante dal 21 marzo, facendo il suo ingresso in diocesi cento anni fa, il 10 gennaio 1904. Si trattò di un «regalo eminente per Pisa», come ebbe a dire papa Pecci alla delegazione pisana in quella che sarebbe stata la sua ultima udienza, il 28 giugno 1903: e furono parole profetiche.
Era la Pisa dalla forte tradizione anticlericale, alimentata soprattutto nel celebre ateneo, la Pisa di Mazzini, ma anche di Giuseppe Toniolo, che il Maffi aveva già conosciuto e con cui strinse il sodalizio di una vita che fu alle origini del Movimento Cattolico italiano. Una Pisa che costrinse il sindaco Frascani alle dimissioni per essersi reso «reo» di un saluto di benvenuto al nuovo arcivescovo. In cui i facchini della stazione centrale sogghignarono di simpatia per il nuovo presule, vedendo le casse e casse di «vino» che si era portato dietro l’arcivescovo: non sapevano, invece, che erano libri. Quella Pisa che, quando il Maffi – già cardinale dal 15 aprile 1907 – volle nel ’22 donare alla città una statua di Galileo – per onorare la sua patria, la scienza e lo scienziato – rispose che avrebbe accettato i soldi per farla, ma non la scultura: che non arrivò. In cui il Comune tentò d’impugnare il testamento Rosselmini Gualandi, che lasciava grandi proprietà all’arcivescovo, non supponendo che egli, intelligentemente, le aveva fatte destinare al Cattolengo, contro cui nulla si potè fare.
Mentre, al ragazzaccio che gli sventolava sotto il naso «L’Asino» di Podrecca – il peggior foglio anticlericale dell’epoca – il cardinale rispose, con l’ironia che gli era propria: «Guarda un po’ credevo ce ne fosse uno solo, e invece siete in due». Altri tempi e mentalità, che però non impedirono a Pietro Maffi di assumere il ruolo di un protagonista nella Storia, e non solo della Chiesa, del primo trentennio del Novecento.
Furono ben tre le visite pastorali alla sterminata ed impervia arcidiocesi pisana, nei quasi trent’anni di episcopato, ed intenso l’amore alla sua Chiesa: basti ricordare l’erezione di Santa Maria Ausiliatrice, a Marina di Pisa; della chiesa di Palazzi di Cecina (oggi, in sua moria, San Pietro in Palazzi); di quella, non vista ma voluta, del Sacro Cuore in Città. Così come gli imponenti restauri a S. Caterina e S. Francesco; la realizzazione degli splendidi angeli bronzei di Ludovico Pogliaghi per l’altar maggiore della Primaziale; il coraggioso e discusso riassorbimento e ricollocazione, in duomo, del Pergamo di Giovanni Pisano, salvato da tre secoli di oblio; la magnifica biblioteca – che ancor oggi porta il suo nome nel Palazzo arcivescovile – ricca di oltre trentamila volumi raccolti personalmente.
Amò i suoi preti e la sua gente, con cuore grande, intelligente pragmatismo e concreta carità. Nel ricordo dei Pisani la sua figura che correva – la tonaca avvolta sul braccio – nel chiostro arcivescovile, trasformato in ospedale militare durante la grande guerra – per aiutare e soccorrere. Mentre è diventato quasi un aneddoto il necessario rigore del suo segretario, monsignor Calandra, nel «temperare» le offerte date dall’arcivescovo a chiunque gli chiedesse una mano.
Patì, come altri, l’incomprensione – anche meschina – di chi non capì la sua grande apertura mentale, l’accettazione dei «tempi nuovi», la sua modernità, scambiata per Modernismo, nonostante le sue parole fossero state sempre chiare: «Mezzi termini, mezze obbedienze, mezze papalità – grazie a Dio – non sono tra noi» (Livorno, 25 ottobre 1908), come i suoi scritti: «Cattolici sì, clericali no» (omelia Pasquale 1923).