Toscana

Ma l’Italia ripudia o no la guerra?

DI EMANUELE ROSSI

*costituzionalista, Scuola superiore Sant’Anna, Pisa

Alla guerra la Costituzione fa riferimento in diversi (ma non contraddittori) modi. Il primo filone è rappresentato da quelli che potremmo chiamare «i profili generali»: l’art. 11 e, in parte, anche l’art. 10. Nell’art. 11, come ormai a tutti noto, si stabilisce che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come strumento di risoluzione delle controversie internazionali», precisando nella medesima disposizione che (l’Italia) «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace a la giustizia fra le Nazioni». Dalla prima parte dell’affermazione si è tratta la distinzione tra la guerra «ripudiata» e quella «accettata»: la prima è quella che ha come scopo la realizzazione di forme di supremazia politica, culturale ed economica mediante l’uso della violenza armata; la seconda è quella difensiva intesa come salvaguardia dei confini del territorio nazionale.

L’ammissibilità di questo secondo tipo di guerra è confermata da un secondo gruppo di disposizioni costituzionali: quelle che attribuiscono al Parlamento la deliberazione dello stato di guerra (art. 78) ed al Presidente della Repubblica la dichiarazione di guerra (art. 87), ma anche quella che stabilisce che la difesa della Patria è «sacro dovere del cittadino» (art. 52) e che vincola a ciò l’azione delle forze armate. Concetto ora ribadito dalla legge di riforma del Titolo V, che all’art. 117 attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato la materia della «difesa e Forze armate», a ribadire la inscindibile connessione tra forze armate e difesa della Patria (ovvero, detti in termini più chiari, l’impossibilità di utilizzare le forze armate per scopi diversi dalla difesa della Patria). I problemi che l’attuale situazione pongono sul piano costituzionale non sono peraltro relativi alla legittimità della guerra «difensiva», ma alla possibilità e alla legittimità del ricorso alla guerra «ripudiata». Non sto a sottolineare il valore del verbo che la Costituzione usa, e usa soltanto in questo caso («ripudia»), ed al significato di esso oltre l’ambito giuridico in senso proprio (certo non è la stessa cosa dire «ripudia» o dire «è tendenzialmente contraria a»…), quanto vorrei soffermarmi sulla connessione tra la prima e la seconda parte della disposizione di cui all’art. 11. Due sono le possibili linee di lettura che sin qui sono state avanzate e che si sono scontrate: chi – da un lato – ritiene che il «ripudio» sia da considerare come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, non superabile da nessun vincolo di carattere internazionale, e chi – d’altro canto – ritiene invece che la seconda parte dell’art. 11 possa prevalere in certe circostanze sulla prima: detto in altri termini, i sostenitori della prima tesi ritengono che anche qualora una guerra sia deliberata da un organismo internazionale finalizzato ad assicurare la pace a la giustizia fra le Nazioni ciò non legittimi l’adesione dell’Italia, stante l’insuperabilità del «ripudio»; chi invece sostiene la seconda tesi afferma che la «cessione di sovranità» accettata dall’Italia comporti anche l’adesione ad un’eventuale azione bellica deliberata dall’organismo internazionale cui l’Italia ha aderito. Accogliendo la prima tesi, è evidente che il problema è già risolto: l’Italia dovrebbe dire no alla guerra «senza se e senza ma» (salva l’ipotesi della guerra difensiva, come si è detto).

Tuttavia c’è chi ha sostenuto e sostiene (ed in tal senso sembrano orientate anche le parti politiche) che non la prima ma la seconda interpretazione debba essere seguita. Questa tuttavia richiede, a norma di Costituzione, il verificarsi di due condizioni: la prima, che la guerra sia deliberata da uno di quegli organismi internazionali cui l’art. 11 fa generico riferimento; la seconda, che ciò avvenga secondo le procedure indicate dagli art. 78 e 87 (cioè, lo ripeto, deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento e dichiarazione di guerra da parte del Presidente della Repubblica).

Per quanto riguarda la prima condizione occorre dunque che via sia una deliberazione di ricorso alla guerra ad opera di uno degli organismi cui l’Italia ha «ceduto» parte della propria sovranità: questo anche perché l’art. 10 della Costituzione stabilisce che «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto», e tra queste vi è il divieto della minaccia e dell’uso della forza a meno che questo non avvenga per legittima difesa o in base a risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Inoltre, occorre che tale deliberazione sia legittima, ovvero adottata secondo le regole che governano tali organismi e nel rispetto dei principi cui essi (e l’Italia) sono sottoposti. Ciò richiede una valutazione dei modi di agire degli stessi nella fase in cui adottano dette risoluzioni: valutazione che quindi non riguarda soltanto il diritto internazionale (cioè i rapporti fra gli Stati) ma anche il diritto interno.

Per quanto riguarda la seconda condizione, essa non ha bisogno di ulteriori spiegazioni: la decisione del Parlamento prima e del Presidente della Repubblica poi sono finalizzate a porre in essere una serie di conseguenze sul piano interno (trasferimento al Governo dei poteri necessari, possibilità per le Camere di prorogare la propria durata, applicazione del codice di guerra, ecc.) o su quello esterno (individuazione dei «nemici», individuazione degli «alleati», applicazione delle Convenzioni internazionali sulla guerra, ecc.).

Venendo, alla luce di tutto questo, ad esaminare la guerra in corso in Iraq sul piano della compatibilità costituzionale, è del tutto evidente che ci poniamo al di fuori di tali condizioni, e che quindi sul piano costituzionale un’eventuale adesione dell’Italia avrebbe significato una rottura netta ed evidente della Costituzione. Quanto alla prima condizione, infatti, si potrebbe obiettare che la Risoluzione 1441 dell’Onu (in combinato disposto con le Risoluzioni 678/1990 e 687/1991) sia sufficiente a consentire la guerra a Saddam Hussein, ma sinceramente, come hanno dichiarato anche insigni internazionalisti (tra tutti, Antonio Cassese), mi sembra oggettivamente impossibile sostenere tale ipotesi. (Detto tra parentesi, se la Risoluzione fosse sufficiente, e dato che in essa non si dà mandato a nessuno Stato in particolare di intervenire, non si capisce perché qualcuno – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna – potrebbe intervenire e qualcun altro – la Turchia, ad esempio – no: in base a quale principio?). Ciò comporta che anche un’eventuale dichiarazione di guerra da parte dell’Italia ai sensi dell’art. 78 sarebbe risultata incostituzionale. A quest’ultimo riguardo va peraltro detto che in nessuna delle occasioni nelle quali il nostro Paese ha partecipato ad azioni belliche all’estero (Golfo, Kosovo, Afghanistan, ecc.) mai è stata adottata la procedura di cui all’art. 78: per giustificare tale comportamento, si è sostenuto che quelle svolte non erano propriamente definibili come «guerre» bensì, rispettivamente, un’«operazione di polizia internazionale» (Golfo 1991), un «intervento a fini umanitari» (Kosovo 1998), un’«operazione di appoggio a legittima difesa» (Afghanistan 2001). Ciò fa emergere un ulteriore problema giuridico: posto che evidentemente non sempre l’uso della forza presuppone l’esistenza della guerra, quando può tecnicamente parlarsi di «guerra»? Difficile poi dire, una volta ricostruito il quadro costituzionale, quali potrebbero essere le conseguenze di un’eventuale azione in contrasto con esso: certo che se la guerra fosse deliberata dal Parlamento con legge fuori dai casi consentiti dalla Costituzione si potrebbe ipotizzare un giudizio da parte della Corte costituzionale, ma l’ipotesi sembra assai remota e difficile da realizzare (anche perché la decisione della Corte potrebbe giungere a guerra già iniziata e magari addirittura già conclusa, ed in ogni caso perché non è detto che la risoluzione parlamentare venga adottata con legge). Così come si potrebbe immaginare una responsabilità penale del Presidente della Repubblica che dichiari una guerra illegittima (ciò potrebbe infatti configurare un «attentato alla Costituzione» di cui il Presidente potrebbe essere chiamato a rispondere ancora davanti alla Corte costituzionale, ma con effetti comunque probabilmente successivi all’intervento bellico italiano).

In definitiva, anche in questa ipotesi, come in molte altre, il dettato costituzionale sembra affidato alla buona volontà degli organi costituzionali: come insegnava Mortati, la Costituzione materiale è nelle mani delle forze sociali e politiche che devono custodirla ed applicarla. Sinceramente non saprei dire se questo, oggi, sia motivo di speranza o di preoccupazione.

L’articolo 11 della Costituzione«L’Italia ripudia la guerra come strumentodi offesa della libertà degli altri popolie come mezzo di risoluzionedelle controversie internazionali;consente, in condizioni di paritàcon gli altri Stati, alle limitazioni di sovranitànecessarie ad un ordinamento che assicurila pace e la giustizia fra le Nazioni;promuove e favorisce le organizzazioniinternazionali rivolte a tale scopo»