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L’umanità si è dimenticata di avere un patrimonio ad Aleppo
Più di duemila anni fa un profugo che fuggiva da molto vicino alla Siria attraversò con molte peripezie il Mediterraneo, perse nella traversata la moglie e il padre e alla fine arrivò in Italia. Quel profugo, che anche lui fuggiva da una guerra, si chiamava Enea. Gli italiani dell’epoca ne fecero non un richiedente asilo in un hotspot, ma un eroe, anzi l’eroe per eccellenza, l’eroe eponimo da cui tutto comincia e tutto discende. Poi la storia di Enea e della guerra di Troia è entrata nelle scuole. È stata la guerra raccontata dai grandi ai bambini. Al contrario oggi c’è una guerra che ai grandi raccontano i bambini, senza volerlo e senza saperlo, in un mondo in cui tutto ormai si dice soprattutto per immagini che assurgono a simboli.
Il primo bambino che ha fatto vedere a tutti la guerra di Siria è stato Alan Kurdi, cinque anni, pantaloncini blu e maglietta rossa. Poteva stare in un nostro asilo. È stato invece fotografato la bocca nel mare e i piedi sulla sabbia, profugo arenato senza vita sulla spiaggia turca di Bodrun. Il secondo bambino è stato Omar Dagnesch, cinque anni anche lui, tirato fuori per miracolo poche settimane fa ancora vivo dalle macerie di Aleppo, nero come uno spazzacamino dell’Ottocento e coperto di tumefazioni come un malato di herpes.
In questa guerra senza inviati speciali e fatta solo di fotografie il racconto visivo globale ci viene comunque dalla città di Aleppo con le sue case franate nelle strade o senza tetto come se non fossero state mai finite, senza finestre come persone a cui sono stati cavati gli occhi o con teli di plastica come ragazzi con il lattime agli occhi. I bambini, le case ci dicono che questa è una guerra di cui soffrono e muoiono i civili senza esenzioni di sesso o di età, che si combatte non al fronte, ma nelle città che di civili sono (erano) piene. Aleppo (ricordate?) era, secondo l’Unesco, «patrimonio dell’umanità». Ma l’umanità si è dimenticata di avere un patrimonio ad Aleppo. Oggi Aleppo non è patrimonio di nessuno, tagliata in due e contesa fra le forze governative e le forze dei ribelli. È sempre meno patrimonio anche di chi l’ha abitata fino a cinque anni fa visto che degli oltre due milioni di abitanti buona parte se ne sono già andati. Le stesse armi che si usano sono armi che mirano soprattutto alla persone e quindi anche ai civili. I governativi lanciano con gli elicotteri i famigerati barili bomba pieni di esplosivo e schegge che, dicono i medici, provocano ferite multiple, tirano fuori le viscere, costringono ad amputare. E i ribelli lanciano bombole di gas che esplodono e bruciano vivi. Ormai Aleppo è una città dove non si vede più il sole perché si vive sottoterra nei rifugi improvvisati o nei corridoi, lontano dalle finestre quando ancora si rimane in casa. Quasi nessuno più lavora se non per cercare di tirare fuori un proprio caro dalle macerie. Si cerca di seminare ortaggi nei vecchi carri riempiti di terra, non si ha più quasi acqua ed elettricità, si manca di medicinali e di attrezzature sanitarie.
Aleppo è come Sarajevo» ha detto il suo vescovo Abou Khazen. E la logica del lungo assedio della città di cui si chiude ogni accesso sembra quella antica e terribile di prendere una città per fame. Padre Lufti Firar, vicario della parrocchia di Aleppo, ha aggiunto che ormai due terzi dei cristiani di Aleppo hanno abbandonato la città, spesso vendendo la casa e gli averi per comprarsi un posto in un barcone che li trascini in Europa. E Aleppo è solo la vetrina di una guerra che in tutta la Siria ha fatto 280 mila morti, due milioni di profughi e sette milioni di sfollati.
Aleppo è ormai diventata una Stalingrado ignobile dalla cui battaglia ognuna delle due parti in lotta per il controllo della Siria sa che dipende la sua vittoria o la sua sconfitta. È una battaglia in cui la pietà non conta più nulla rispetto ai risultati militari. Solo in vista di questi si bombardano anche ospedali e convogli umanitari. Anche il terrore della popolazione di morire per le ferite o per la fame è diventato uno strumento per ottenere la resa come nei grandi bombardamenti terroristici della seconda guerra mondiale. Ma ormai le due parti che a suo tempo iniziarono il conflitto nel paese potrebbero fare ben poco se lasciate sole.
In realtà la guerra in Siria è diventata un grande scontro internazionale. Fra sunniti e sciiti nel mondo islamico. Fra russi, iraniani, bande libanesi pakistane da un lato e Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita dall’altro. Nessuna delle due parti in lotta all’interno riuscirebbe a sopravvivere senza l’aiuto esterno. Per questo l’intesa internazionale è fondamentale per fermare la guerra. Basta che da un lato si rinunci a sostenere vita natural durante Assad per mantenere la Siria sotto il proprio protettorato, per contare di più nel Medio Oriente, magari per mantenere il porto di Tartus. Dall’altro che ci si decida a separare i seguaci dell’Isis dai ribelli democratici e dai combattenti curdi e a combattere sul serio i primi, anche per aumentare la credibilità dei secondi. E alla fine che, anche se l’odio accumulato dopo tanto sangue non è facilmente curabile, soprattutto in tempi brevi, ci si renda conto che ogni processo di pace senza vittoria è una mediazione con l’altro e non una sopraffazione dell’altro.