Lucca

Lucca, la giovane infermiera Elisa Bruno: “dentro la pandemia da neo laureata”

Fa domanda per il concorso indetto in emergenza e ad aprile 2020 arriva la chiamata da Bologna: inserimento immediato in cardiochirurgia pediatrica. Nel frattempo ha preso un master in infermieristica di famiglia e comunità.

Come sei arrivata a lavorare in terapia intensiva?«Un mese e mezzo fa c’è stato un picco di casi, nel nostro reparto sono calati gli interventi programmati. La caposala ci ha chiesto se fossimo interessati a dare una mano in reparto Covid e ho deciso subito di andare. Mi era “rimasto lì” il fatto di non aver vissuto questa esperienza in prima persona, ma sempre tramite televisione o esperienze di colleghi, volevo dare una mano dove c’era bisogno. Mi sono buttata e ho fatto la scelta migliore». Vestirsi e varcare la porta: l’impatto del primo giorno?«Mi hanno insegnato per prima cosa la vestizione. Il primo giorno è stato un disastro, un’urgenza dopo l’altra, una guerra. Uno dei primi giorni, poi, ho avuto paura di non poter riuscire a starci molto, perché è venuta da noi la caposala con le lacrime agli occhi, chiedendo di fare un video per il marito di una signora che era intubata. I medici non sapevano più cosa fare per lei perché non reagiva, è stata una scena che non mi scorderò mai. Alla fine la signora si è ripresa e un giorno ho avuto l’onore di fare una videochiamata con il marito che le diceva quanto la amasse, lei non riusciva a rispondere ma la vedevo che guardava e capiva tutto. Poi, la prima volta che ho visto una persona che non ce l’ha fatta, ho pensato: “chi sono io per dargli l’ultimo saluto al posto dei suoi familiari?”». Ora come ti senti a lavorare lì?«Le emozioni sono tante, mi sono lanciata. Quando siamo lì dobbiamo esteriorizzarci dalla situazione, perché se ci focalizziamo troppo rischiamo di farci prendere dalle emozioni e lavorare male. Viene da pensare che le persone che hai davanti potrebbero essere parenti, amici, genitori, ma cerchiamo semplicemente di pensare a lavorare». Il lavoro in equipe?«È bello, siamo tutti ragazzi molto giovani con voglia di imparare, ci aiutiamo molto a vicenda, fa parte del nostro essere infermieri. Anche i medici ci prendono molto in considerazione, non come in altri reparti. Siamo sette infermieri e la più grande ha 28 anni. L’essere giovani fa molto, riusciamo a vivere momenti che potrebbero essere molti cupi, fra morti e pazienti molto gravi, facendoci forza a vicenda. Da soli non si va da nessuna parte». Com’è la tua giornata tipo?«La giornata tipo non esiste. Facciamo i turni, di mattina, pomeriggio o sera. Ti vesti ed entri, ma non sai più quando esci. In alcune giornate non esci neanche mai ma, se il paziente è stabile nella sua criticità, puoi uscire e spogliarti un attimo per bere, mangiare, prendere una boccata d’aria. In ogni turno ci sono compiti diversi, la cosa fondamentale sono le urgenze, che possono capitare in qualsiasi momento e anche insieme. Sono il brutto e il bello di questo lavoro, ciò che dà la “non routine”, l’adrenalina. Durante le urgenze sembriamo api intorno al fiore». Cosa dite ai pazienti in momenti così delicati?«Di stare tranquilli ed essere forti, di pensare a tutto ciò per cui devono tornare a casa: la famiglia, il lavoro, i figli, i nipoti. Di pensare, insomma, a quello che li lega di più alla vita».