Opinioni & Commenti

L’Opus Dei e la canonizzazione di Escrivà

di Romanello CantiniC’è qualcosa di singolare nel successo raggiunto dall’Opus Dei dopo settanta’anni della sua nascita. La forza dell’organizzazione è apparsa evidente con la partecipazione di massa alla canonizzazione di monsignor Escrivà in piazza San Pietro. Una partecipazione che ha moltiplicato per tre gli ottantamila aderenti ufficiali e che manifesta oggi la popolarità di una associazione descritta a lungo come un club riservato, esclusivo e quasi segreto (le stesse accuse che si mossero all’inizio dell’ordine dei gesuiti). Si tratta di associazione che ormai è diffusa ampiamente nei paesi ricchi e nei paesi poveri a smentire il suo presunto carattere di élite fatto di manager e di personaggi rampanti del mondo capitalistico. Una società prevalentemente di laici nata paradossalmente in un paese così «clericale» che si diceva allora che ogni spagnolo correva dietro ad un prete o per seguirlo o per inseguirlo. È un fenomeno sfuggito a lungo all’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa se non per denigrarlo e privo quindi della loro cassa di risonanza oggi ritenuta così essenziale per la crescita di ogni iniziativa. Si sa che nella storia della Chiesa, fin dai tempi di San Benedetto e di San Francesco, ha più fortuna ciò che spunta dal basso che ciò che piove dall’alto. Questa regola sembra valere ancora oggi quando pure documenti, convegni, avvenimenti, proposte al vertice cercano di animare progetti e di proporre obiettivi spesso destinati a rimanere in tutto o in parte sulla carta.La fortuna del movimento di monsignor Escrivà sembra legata soprattutto ad una sola acerba idea nata quaranta anni prima del Concilio: il ruolo dei laici nel loro lavoro e non solo nel loro dopolavoro. Per secoli nella storia della Chiesa la via maestra alla santità è apparsa quella che passava attraverso il chiostro o comunque attraverso la «fuga dal mondo». A lungo i santi sono stati romiti, monaci, persone consacrate. Nel medioevo la pietà tocca i laici, ma solo nella frangia alta dei re e dei cavalieri. Ancora al tempo del cardinale Bellarmino il suo libro «De laicis» tratta solo dei principi. Ma anche i re in passato spesso chiudono la loro vita nel convento perché sanno che attraverso le sue mura sembra passare la via più breve che porta al Paradiso. Come scriveva Giovanni Crisostomo «i monaci guardano come dal cielo ai naufragi degli altri, il loro metodo di vita è degno del cielo ed essi sono in uno stato che non è inferiore agli angeli».

Ancora quattro secoli orsono San Francesco di Sales poteva notare che «quelli che hanno scritto sulla pietà si prefiggevano quasi tutti di ammaestrare persone che da tempo si erano ritirati dagli affari di questo mondo o perlomeno hanno insegnato una pietà che conduce ad un completo ritiro dal mondo».

Così mentre la santificazione del clero era, per così dire, a tempo pieno, quella dei laici era a part time legata alle pratiche devozionali delle vigilie e delle feste. Il lavoro è stato a lungo visto come un tempo morto e perso al fine della salvezza e considerato come una necessità negativa dovuta alla espiazione del peccato e al bisogno di fuggire l’ozio e la miseria. C’era magari una prima etica delle professioni in San Bernardino e in Sant’Antonino, ma anch’essa intesa a porre dei limiti al lavoro senza valutarlo in sé. Alcune intuizioni di San Tommaso sul lavoro come partecipazione alla creazione ed espansione della propria personalità rimarranno ben presto dimenticate. Non a caso si attribuisce a Lutero l’invenzione del termine «professione» ricavato dal termine clericale di «vocazione».

Lo stesso Escrivà doveva confessare questa mancanza di giustificazioni nella tradizione della Chiesa della pietà laicale come lui la intendeva: «Trovai una soluzione di continuità nei secoli: non c’era nulla. Tutta l’Opera vista con sguardo umano era uno sproposito. Per questo qualcuno diceva che ero pazzo, che ero eretico e tante altre cose».Monsignor Escrivà ebbe questa intuizione (così particolare da apparirgli come una illuminazione divina in quel lontano 2 ottobre 1928) in una stagione storica che sarebbe stata segnata dalla crisi delle vocazioni e dalla generalizzazione del lavoro non solo per i poveri, ma anche per i ricchi, non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Sarebbe arduo dimostrare che nella opera del fondatore dell’Opus Dei esiste una nuova teologia del lavoro come quella che in occasione del Concilio cercarono di elaborare, ad esempio, padre Chenu e padre Congar. La sua idea di santificazione dei laici rimane forte e vaga, legata ad una disposizione interiore più che ad un modo diverso di intendere la professione. A chi lavora l’Opus Dei offre soprattutto mezzi di formazione e di ritiro, tempi di preghiera e pratiche devozionali. E tuttavia su questo piano Escrivà precorse i tempi con una idea vincente anche se appena abbozzata. La sua precocità gli fu fatta notare in Vaticano negli anni Quaranta quando cercava riconoscimenti: «Lei può aspettare perché è in anticipo di un secolo».

Oggi, dopo il Concilio e dopo l’enciclica «Christifideles laici», di Giovanni Paolo II le sue intuizioni possono apparire perfino ovvie. Tuttavia quando il Concilio affrontò il tema della autonomia dei laici egli temette le dispersione e la mimetizzazione nel momento in cui l’attività laicale diventava un fine in sé. Lo disse preoccupato anche ai padri conciliari nel momento in cui si stava discutendo la «Lumen Gentium»: «Purché i laici abbiano un’anima contemplativa e siano ben ordinati dentro con l’essere uomini di profonda vita interiore. Altrimenti invece di cristianizzare il mondo si mondanizzeranno i cristiani».

Il progetto dell’Opus Dei fu inoltre concepito più come una somma di progetti personali che con un progetto collettivo. La formula «organizzazione senza organizzazioni» lascia i membri della associazione liberi di inventare nel loro ambiente iniziative originali e congeniali con una forte carica di libertà e responsabilità. Questa sorta di «campagna dei cento fiori» ha fatto sì che i membri dell’Opus Dei abbiano potuto spaziare negli ambiti più diversi dai ministeri alle università, dall’impresa alla famiglia, dall’educazione dei giovani all’assistenza ai malati, dall’accoglienza agli immigrati al volontariato nel Terzo Mondo.

La pietà laicale immaginata da Escrivà è rimasta pur sempre una esperienza esistenziale personale. Per questo, più che per un’esigenza di pluralismo, il fondatore dell’Opus Dei rimase sempre indifferente alle scelte politiche dei suoi seguaci quali esse fossero. Ovviamente con qualche rischio di accuse inevitabili anche se mal poste per chi nella sua vita dovette attraversare la guerra civile e il regime franchista. E tuttavia non c’è dubbio che anche questa scelta di autonomia politica raggiunta per vie traverse rispetto a quelle che oggi consideriamo giustificazioni canoniche ha dato all’Opus Dei un vantaggio e una assicurazione preventiva per trasferirsi ovunque e per universalizzarsi straordinariamente anche a costo di ignorare ideologie e utopie.

La presenzain Toscana

Fin dal 1946 il fondatore dell’Opus Dei si stabilì a Roma. Questo gli consentì di visitare spesso la Toscana, in particolare Firenze, Pisa e Siena, attratto soprattutto da Santa Caterina. Passò alcuni periodi estivi anche nel Castello del Trebbio in Mugello e a Villa Pinzuto, a pochi chilometri da Piancastagnaio sull’Amiata. Le permanenze al Trebbio, a Piancastagnaio, ma anche a Montecatini offrirono a monsignor Escrivà continue occasioni per conoscere quasi tutta la Toscana. Visitò Arezzo, Cortona, il Casentino. Pregò nel Santuario di Montenero, come pure a Vallombrosa. E ancora ebbe modo di visitare Lucca, Pistoia, Forte dei Marmi, Grosseto. Escrivá, sin dal lontano 1949, nutrì sempre il desiderio di aprire un centro dell’Opus Dei in Toscana. Ma fu possibile solo nel 1984, a Firenze, con l’Accademia dei Ponti. Dopo di che le attività dell’Opus Dei si sono sviluppate rapidamente non solo a Firenze e a Pisa, ma anche a Prato, Pistoia, Lucca, Siena e Arezzo.

L’Accademia dei Ponti, con sede adesso in via Trieste, è un ambiente di formazione culturale, professionale e spirituale per studenti di ogni ordine e grado. Nata col contributo di famiglie, insegnanti, docenti, e professionisti, l’Accademia dei Ponti ha creato una fitta rete di comunicazioni fra i vari ambiti scolastici e universitari, e fra questi e i contesti economici, culturali e sociali. Attualmente è presieduta da Tito Fortunato Arecchi e diretta da Cosimo Di Fazio. Per le attività dell’Accademia è possibile consultare il sito internet www.accademiadeiponti.it all’interno del quale è ospitato anche un giornale redatto dagli studenti e diretto da Giancarlo Polenghi. «La nostra attività giornalistica e di informazione – spiega Polenghi – è spunto per diffondere idee e notizie, e insieme occasione per imparare a comunicare con più efficacia. Nella sezione definita e-zine ospitiamo anche contributi di giornalisti o scrittori che accettano di collaborare con il nostro sito. E-zine è strutturato in varie sezioni: il Punto, Articoli, Segnalazioni (narrativa, saggistica, siti e film) e In libertà».