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Londra, Brexit dietro l’angolo?

Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha reso nota una bozza di accordo tra Bruxelles e Londra per evitare che la Gran Bretagna lasci l'Ue. L'esperto dell'Università di Aberdeen, «queste misure non bastano per placare gli euroscettici». Si complicano i rapporti con Scozia e Irlanda.

È una posizione scomoda quella in cui si trova, in questa fase, il premier britannico David Cameron: il referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Ue è all’orizzonte, da Bruxelles arriva qualche «apertura», ma spuntare ulteriori «concessioni» sarà difficile. «Non esiste ulteriore possibilità di negoziazione con l’Unione europea sulle due questioni più rilevanti» sollevate dal capo del governo, «ossia le restrizioni alla libera circolazione dei cittadini» e le limitazioni «sui sussidi del welfare». A parlare è Michael Keating, docente all’Università di Aberdeen, esperto di integrazione comunitaria e Brexit, nonché autore del volume «Rescaling the European State», ovvero «Ribilanciare lo Stato europeo». Anche alla luce delle proposte di accordo avanzate ieri dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, il contenzioso fra Londra e il resto d’Europa non sembra appianarsi.

Le proposte di Tusk. La lettera inviata, con data 2 febbraio, dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, a tutti i capi di Stato e di governo dell’Unione europea sul tema del referendum inglese, mostra alcune concessioni al governo inglese,  fissa gli elementi irrinunciabili della politica comunitaria e rimanda le decisioni al summit del 18-19 febbraio. Tra gli elementi sostanziali, si afferma che il Regno Unito «non è obbligato» a partecipare a una integrazione politica più approfondita. Nel rispetto del principio di sussidiarietà, gli Stati Ue potranno «interrompere la presa in esame di una proposta legislativa europea se un certo numero di Parlamenti nazionali vi si oppone». Sul fronte migratorio si conferma il «meccanismo di salvaguardia», che potrebbe essere concesso a tutti gli Stati in caso di «afflussi eccezionali» di lavoratori europei, riducendo temporaneamente per loro e le famiglie i benefici del welfare. «Per quanto riguarda la governance» e la sovranità, afferma Tusk, si assicura «il pieno rispetto di chi vuole approfondire l’Unione economica e monetaria e di chi no». Ma i Paesi che non aderiscono all’eurozona sostanzialmente non avranno voce in capitolo nelle decisioni sulla moneta unica.

Colpe da entrambe le parti. Keating non è convinto che, per l’esito del referendum, sarà sufficiente il cosiddetto «emergency brake». Il «freno d’emergenza» dovrebbe consentire a uno Stato, con l’accordo degli altri Paesi, di tagliare i sussidi ai lavoratori che arrivano dall’Unione, per i primi quattro anni, dimostrando che i propri servizi pubblici o i servizi sociali si trovano in condizioni di difficoltà. «Non basterà a convincere gli euroscettici britannici che vogliono andarsene dall’Unione», afferma lo studioso. «Cameron ha ormai perso il controllo – aggiunge – e l’agenda politica viene dettata dal partito dello Ukip, che vuole la Gran Bretagna fuori dall’Europa». «La colpa», secondo Keating, «è anche dell’Unione europea che non ha saputo rispondere al bisogno di leadership sulla crisi dell’immigrazione e quella economica». «La credibilità dell’Ue è diminuita, in tutti i Paesi europei e, a maggior ragione, in Inghilterra, da sempre euroscettica». Insomma il referendum sul Brexit, che potrebbe essere indetto già il prossimo 23 giugno, «non poteva capitare in un momento peggiore». Certo, secondo Keating, «un accordo verrà raggiunto, a febbraio o a marzo, perché Cameron non vuole che il Regno Unito lasci l’Ue, e gli altri 27 Stati non vogliono» che Londra «se ne vada dall’Europa». «Ma il premier convincerà soltanto chi, già ora, è a favore dell’Unione».

Braccio di ferro con gli scozzesi. «Il rischio che il Regno Unito si spezzi, con Inghilterra e Scozia che se ne vanno su strade opposte, dopo un Brexit, è reale», sottolinea poi l’esperto. «Gli scozzesi hanno, da sempre, identità multiple – scozzesi, britanniche, europee – che consentono loro di negoziare a diversi livelli, mentre gli inglesi sono abituati a un unico livello di governo e a non negoziare con nessuno».  «Per questo motivo gli scozzesi sono a favore dell’Unione e gli inglesi euroscettici».

Gli scenari possibili sono, secondo Keating, due. «Se, durante il prossimo referendum, i voti degli inglesi prevarranno e saranno a favore del Brexit, il partito nazionalista scozzese chiederà un secondo referendum per staccarsi dal Regno Unito», spiega. «Sarà una situazione molto difficile, peggiore di quella del 2014, perché, allora, Scozia e Inghilterra facevano parte, comunque, dell’Unione europea mentre questa volta, tra Scozia e Inghilterra, vi sarebbe, per la prima volta, un vero confine, una prospettiva che non piace ai nazionalisti scozzesi». Il secondo scenario è meno probabile ma non meno preoccupante del primo. «Se la grande maggioranza degli scozzesi voterà per rimanere nell’Unione europea e una risicata maggioranza degli inglesi per andarsene, e il risultato del referendum premiasse il Brexit, le tensioni tra Scozia e Inghilterra si intensificheranno».

E l’Irlanda? C’è anche un altro Paese, oltre alla Scozia, molto preoccupato dalla possibilità che il Regno Unito esca dall’Ue, l’Irlanda. «Il Regno Unito è un importante partner commerciale per l’Irlanda che è entrata, nel 1973, nell’Unione europea, insieme al Regno Unito», continua Keating. «L’Irlanda rimarrà comunque in Europa, anche nel caso di un Brexit, ma in una situazione molto difficile perché molti irlandesi lavorano nel Regno Unito. Inoltre, se il Regno Unito dovesse lasciare l’Ue, anche il Nord Irlanda se ne andrebbe e questo comporterebbe la necessità di un confine, tra Irlanda e Nord Irlanda, con rischi per il processo di pace». Insomma un Brexit sarebbe «un disastro» e questo è il motivo per cui, secondo il professor Keating, «mondo degli affari, sindacati e maggioranza dei partiti non lo vuole».