Vita Chiesa

L’omelia del cardinale Giuseppe Betori pronunciata questo pomeriggio in Cattedrale nella commemorazione dei defunti

Commemorare i defunti, ricordare la finitezza della vita, comune destino di uomini e donne sulla terra, richiamare alla serietà della morte è quanto la Chiesa sente di dover fare per difendere l’umanità dal pericolo che, oscurando la morte, cada in una tragica mistificazione della realtà, diventando preda di illusioni che generano superficialità e irresponsabilità.

Una vita privata della morte perde il suo valore, quello che gli è conferito dal fatto che ogni cosa si deve misurare con il limite. Nasconderlo significa dare spazio alla superficialità. E quanta superficialità c’è nella nostra società, dove l’apparenza e la ricerca di consenso hanno spesso il sopravvento sulla realtà e la verità! Non meno deleterio è l’atteggiamento di irresponsabilità che l’oscuramento della morte porta con sé, annullando il tempo in cui fare i conti con le conseguenze delle nostre azioni. Non è difficile accorgersi quanto la mancanza di responsabilità nelle relazioni tra le persone e nella vita pubblica sia all’origine di molti tra i mali che ci affliggono.

Dobbiamo riconoscere con chiarezza le forme con cui la morte viene oscurata dalla cultura contemporanea. La prima è la banalizzazione, quella che si intravvede nelle sceneggiate di Halloween, nell’esibizione della morte su scala industriale nello spettacolo, nella diffondersi delle credenze nella reincarnazione. Ci si vorrebbe fare intendere che la morte non è poi l’evento ultimo della vita in questo mondo, ma soltanto un momento secondario di una continuità vitale con cui non dobbiamo fare i nostri ultimi conti.

Ancora più inquietante è l’oscuramento della morte quando se ne vorrebbe fare una realtà a nostra disposizione, per estendere fino ad essa la nostra autodeterminazione, in realtà volendone fare l’ultimo possibile oggetto del possesso. Un’umanità che pensa di concentrare la propria identità su ciò che possiede e di affermare la propria realizzazione in misura di quanto ha a sua disposizione, vuole ricondurre a questo schema anche il suo rapporto con la morte. La si rifiuta come evento inevitabile del cammino umano e se ne vuole possedere la chiave disponendone nel tempo e nel modo che si vuole, per sé e per gli altri.

Una pressante campagna di opinione vorrebbe convincerci che l’eutanasia e l’omicidio del consenziente siano l’unico rimedio alla sofferenza. Sappiamo bene che non è così, perché non mancano alla scienza e alla carità oggi modi per accompagnare il fine vita con dignità e senza sofferenza. È invece evidente che dietro a quanto ci si vorrebbe proporre sta una volontà di potenza che vuole appropriarsi di ciò che per principio non è a nostra disposizione, la morte. E così invece di garantire la dignità della vita a chi è in situazioni di disabilità gravissima, si vorrebbe imporre il suicidio assistito come una morte dignitosa e non l’abbandono di un essere umano.

A queste sfide come risponde lo sguardo della fede? Prendendo sul serio la morte, facendone memoria per riscoprirla come il limite della vita, da cui scaturisce una misura non contraffatta delle cose e di noi stessi. Ma della morte la Chiesa non parla soltanto come un limite, ma anche e ancor più come un passaggio, il passaggio da questa vita nel tempo alla vita eterna, alla prospettiva beata della piena comunione con Dio.

Le parole del profeta Isaia hanno posto davanti a noi l’immagine di una morte che viene vinta dal disegno di Dio sull’umanità. Dio stesso toglierà dal volto dell’umanità il «velo» (Is 25,7) del lutto e, con un gesto di tenerezza, «asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25,8), perché Dio sconfiggerà la morte e negherà ad essa il supremo potere: «Eliminerà la morte per sempre» (Is 25,8).

Questa prospettiva di salvezza, secondo l’apostolo Paolo, va oltre la stessa umanità e abbraccia l’intero creato: «La stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Ritroviamo in queste parole, nella prospettiva di un mondo redento, il legame tra l’umanità e la natura attorno a sé, così evidente in questo tempo di crisi ecologica e così fortemente richiamato da Papa Francesco con l’invito a considerare insieme la rinascita dell’umano e la salvaguardia del creato.

Nel momento in cui la Chiesa ricorda alla nostra coscienza la severa realtà della morte, al tempo stesso apre uno sguardo di speranza, per l’uomo e per il mondo. Redenta da Cristo, morto per noi e risorto da morte, la morte non è più la nostra fine, il dissolverci nel regno delle ombre, ma la soglia che ci separa dalla provvisorietà e caducità di questo mondo per entrare nella gloria di Dio che ci accoglie in una vita piena e senza fine. L’immagine della morte non è più sinonimo di limite e di incompiutezza, tantomeno di disperazione, ma prospettiva di speranza e di pienezza di significato.

Questa visione si proietta sui giorni di cui è intessuta la vita e ne sollecita un’assunzione responsabile, perché la morte ha anche il volto del giudizio. Occorrerà fare i conti della nostra vita al suo termine, di fronte a Gesù e al Padre suo e nostro. Un giudizio che prende forma giorno dopo giorno per come la nostra esistenza si pone in rapporto a Cristo e agli altri, perché egli ci dice che «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Questo fonda il nostro farci carico di ogni sofferenza, il dovere di farci vicini a quanti sono sulla soglia tra la vita e la morte, perché ogni istante della loro esistenza sia umano, accompagnato dalla condivisione di chi si sente fratello. Dal giudizio nella morte scaturisce per noi la responsabilità di un’esistenza da vivere nell’accoglienza e nell’amore reciproco, a immagine di Cristo, colui che, servendo l’uomo nell’amore, ha vinto la morte e ha conquistato per tutti la risurrezione dai morti.

Giuseppe card. Betori