Firenze

L’omelia del card. Betori nella Messa in suffragio delle vittime del cantiere in via Mariti a Firenze

"Compito di un vescovo nella vicenda che ha dolorosamente segnato la vita della nostra città, con la morte di cinque nostri fratelli, non è quello di indicare responsabilità o di suggerire provvedimenti da assumere, ma quello, non meno importante, di offrire un senso e una speranza che ci permetta di vivere il presente e di sostenerci nel cammino verso il futuro.

Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia proclamata ieri nella Chiesa dell’Ascensione di N.S. Gesù Cristo dall’arcivescovo di Firenze nel trigesimo della morte dei cinque operai nel cantiere di via Mariti.

Compito di un vescovo nella vicenda che ha dolorosamente segnato la vita della nostra città, con la morte di cinque nostri fratelli, non è quello di indicare responsabilità o di suggerire provvedimenti da assumere, ma quello, non meno importante, di offrire un senso e una speranza che ci permetta di vivere il presente e di sostenerci nel cammino verso il futuro. È quanto cercheremo di fare alla luce della parola di Dio che abbiamo ascoltato, mentre abbiamo nel cuore il dolore per queste vite ingiustamente spezzate e il pensiero per le loro famiglie e i loro amici. 

Due sono le dimore di cui parla l’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: una è quella terrena, descritta come una tenda, un qualcosa di provvisorio, di non duraturo, che ha dunque a che fare con la fragilità. C’è poi un’altra dimora, che, invece, non è opera della fatica dell’uomo, in quanto è ricevuta in dono da Dio e, proprio perché suo dono, ha un carattere di eternità. 

Tra ciò che fragile e ciò che è eterno non c’è frattura nel tempo, perché già oggi nel nostro cuore vive un desiderio di eternità che è l’orizzonte che deve illuminare e quindi determinare il presente. 

Il desiderio di «abitare presso il Signore» è capace così di offrire a ogni credente, che vive una particolare situazione di precarietà, uno sguardo nuovo anche nell’interpretare il significato della tenda in cui attualmente dimora, fatta di ferite, di caducità, di morte. 

E questo è possibile perché l’apertura del nostro essere verso l’eternità non nasce da un nostro sforzo, ma è un dono che viene da Dio, che non è lontano dalle fragilità dell’uomo se ne è fatto carico, prendendo su di sé ogni nostro dramma, ogni esperienza di povertà e precarietà, fino anche la tragicità della finitezza, rappresentata dalla morte. Per questo il desiderio di eternità non è altro che il desiderio di Cristo. È Gesù la luce capace di brillare nella notte più profonda; ed è lui quell’annuncio di resurrezione che risuona quando la morte sembra avere drammaticamente l’ultima parola.

Questo è l’annuncio di fede che oggi la Chiesa proclama per noi: Cristo ha veramente attraversato il dramma della morte, vincendola dal di dentro. Egli ha così definitivamente risignificato la morte. E questo non è semplicemente un fatto storico di duemila anni fa, ma una verità che ci riguarda, e ci riguarda oggi. La morte, anche la morte tragica dei nostri fratelli per il crollo della trave nel cantiere di via Mariti non è abbandonata a sé stessa, ma entra nella morte del Crocifisso e diventa quindi promessa di risurrezione.

Tale desiderio di eternità non sminuisce, tuttavia, la tragicità della morte. Essa rimane il grande limite che segna non soltanto il momento finale della vita di ogni uomo e donna, ma anche ogni tappa della sua storia. Un limite così evidente da permettere al cuore di gridare: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Sono le parole che Maria rivolge a Gesù per la morte del fratello Lazzaro. Un grido, in realtà, che contiene in sé una domanda: “Dove eri tu, Gesù, nel momento in cui mio fratello aveva bisogno della tua presenza? Dove eri quando stava per morire?”. Le risposte a queste domande sembrano essere abbastanza chiare: “Eri semplicemente assente, non eri lì con lui; lo hai fatto morire da solo”.

Il desiderio di eternità, spesso, vorrebbe affermarsi in modo assoluto, quasi a volersi imporre oltrepassando il dramma del passaggio della morte. Eppure Gesù, come abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi, non si presenta come un mago che elimina l’esperienza del dolore, sottraendoci alla nostra condizione umana- Egli, tantomeno, non si presenta come una possibile e appetibile terapia analgesica di fronte alla sofferenza più acuta. Egli, tuttavia, raggiunge la sua creatura più debole proprio nel culmine della sua sofferenza, ed entra nella piaga di coloro che gridano l’abbandono da parte sua proprio nel momento del bisogno. «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente. […] Gesù scoppiò a piangere». Un Gesù, qui, che è tutt’altro che un super eroe o un super uomo; anzi, ci colpisce proprio la sua estrema umanità. Si tratta di un’umanità che, proprio nel gesto del piangere, rivela la grandezza e la potenza di Dio.

Gesù piange insieme a noi la morte di Mohamed, Luigi, Taoufik, Mohamed e Bouzekri, vittime innocenti, strappate alla vita mentre erano sul posto di lavoro, ambito in cui rispetto della vita, della sicurezza e della dignità della persona dovrebbero essere imprescindibili.

Gesù non ci toglie dalla condizione umana, e quindi anche dalle nostre responsabilità, ma è vicino ai suoi, si commuove per le loro lacrime, penetra fino in fondo nella situazione di disperazione, di morte, e proprio “da lì” spalanca le porte della vita. Invito ciascuno a sentire Gesù vicino a noi, piangere accanto a noi per i nostri morti, richiamando con questo alle responsabilità perché a ogni livello – nella legislazione, nell’organizzazione del lavoro, nell’accuratezza dei controlli – sia salvaguardato il primato della persona rispetto a ogni altro interesse. 

Il lavoro, l’ho ripetuto in più occasioni, è una componente essenziale della dignità umana; non soltanto per questioni di natura economica, ma perché attraverso di esso ciascuno è capace di vivere nel presente questo desiderio di eternità. Ogni negligenza nel garantire sicurezza e tutela ai lavoratori è un modo di ferire, fino anche a uccidere, non solo la fisicità della persona, ma anche quel desiderio di pienezza che alberga nel cuore di ogni uomo e donna; quel desiderio di cose grandi a cui aspira ogni persona che, nella fatica di ogni giorno, si reca al lavoro. 

Di fronte al mistero del dolore non possiamo dare risposte scontate, ma una cosa rimane certa: come davanti alla notizia della morte dell’amico Lazzaro, anche oggi Cristo si commuove del nostro dolore, piange con noi, entra fino in fondo nella parte più ferita, più lesa del nostro cuore, lì dove tutto ha ancora il sapore della morte, per far risuonare una parola di resurrezione.

Sentiamo ancora viva accanto a noi la partecipazione di Papa Francesco a questa nostra tragedia, in cui mi chiese di «esprimere ai familiari delle vittime sentimenti di vicinanza e cordoglio insieme alla sua più viva partecipazione al dolore dell’intera città»; parole di conforto a cui aggiunse «l’appello alla sicurezza sui luoghi di lavoro auspicando un maggiore impegno di quanti hanno la responsabilità di tutelare i lavoratori» e, infine, il ringraziamento per «tutti coloro che si stanno adoperando nelle operazioni di soccorso», parole accompagnate dalla sua preghiera e della benedizione apostolica.

Ci avviciniamo alla Pasqua: chiediamo al Signore un rinnovamento profondo, che queste lacrime lascino un segno indelebile, interpellino le coscienze di tutti, affinché si possa costruire una società giusta dove il valore inestimabile della vita non sia mai più messo a rischio sul posto di lavoro. Facciamoci carico personalmente di questo impegno; lo chiediamo in particolare a chi ha compiti decisionali. Riponiamo nelle mani di Dio questa nostra accorata speranza.

Giuseppe Card. Betori