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Lo «strappo» di Gaza

DI ROMANELLO CANTINIIl ritiro israeliano da Gaza: un passo verso la pace? C’è sempre un pezzo di cuore che si strappa quando si deve abbandonare il luogo dove finora si è vissuti, dove si sono costruite case e cose, dove si sono riposti affetti e progetti. Questa lacerazione è inevitabile anche quando la presenza di qualcuno in un luogo è illegittima come nel caso dei coloni israeliani fatti sgomberare da Gaza in questi giorni. Si tratta di qualche migliaio di persone, ben poca cosa in fondo di fronte ad altre grandi migrazioni forzate di un tempo non lontano come i milioni di tedeschi cacciati dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia alla fine dell’ultima guerra o come i milioni di pakistani e di indiani espulsi dalle proprie terre al momento della spartizione dell’India. A Gaza i coloni che hanno dovuto sgomberare non sono stati trattati come profughi.

Sono stati indennizzati del prezzo delle loro case, hanno usufruito di un trasporto gratuito dei loro beni, sono stati accolti in territorio israeliano. Eppure, nonostante questi ammortizzatori di un trasferimento perfettamente organizzato, un di più di pathos c’è stato: questo è accaduto per una sorta di autoinganno di cui i coloni sono stati al contempo protagonisti e vittime.

Da sempre essi hanno creduto o si è fatto loro credere di essere non cittadini di quel triangolo di terra riconosciuto dall’Onu 60 anni fa, ma del grande Israele dei tempi biblici per il quale essi pensavano di camminare sulle orme di Giosuè e di Davide e davano alla loro usurpazione il significato religioso della continuazione di quella prima colonizzazione. Nell’esasperazione dell’abbandono è stato, inoltre, usato quel termine, “esodo”, che tanti significati fondanti e drammatici ha nella storia antica e recente di Israele.

E tuttavia è innegabile, nonostante la drammaticità dello strappo di oggi che la colonizzazione ebraica dei territori occupati ha costituito finora uno dei principali, se non il principale ostacolo, alla pace con i palestinesi.La costruzione di queste colonie, avvenuta negli ultimi 35 anni con la tolleranza se non con la connivenza dei vari governi israeliani, è stata una pratica di abusivismo politico prima che urbanistico ed edilizio. Agli occhi dei palestinesi la colonizzazione dei territori occupati ha costituito la prova a vista d’occhio che l’occupazione israeliana voleva essere eterna come il cemento che si versava sulle loro terre, che la posizione ufficiale della restituzione dei territori in cambio della pace si deprezzava a mano a mano che si concedeva ad altri quella terra che doveva essere moneta di scambio per costruire uno Stato palestinese insieme alla pace. Il governo Sharon ha dimostrato coraggio e determinazione nel mantenere la promessa di evacuare le colonie di Gaza. Lo ha fatto, inoltre, senza chiedere nulla in cambio ai palestinesi dimostrando così con il suo unilateralismo di voler riparare solo un torto.

E, tuttavia, governo, esercito, società civile hanno retto alla prima prova di un conflitto fra ebrei solo per un soffio. Già, del resto, Israele aveva sgomberato le colonie nel Sinai 20 anni fa. Ma si trattava di ben poca cosa, come ben poca cosa, sono le colonie di Gaza nei confronti delle molto più numerose colonie della Cisgiordania.

Ed il problema si riproporrà in modo ancora più drammatico quando si dovrà affrontare questa nuova fase di smobilitazione a meno che il governo Sharon non abbia voluto rinunciare a Gaza per mantenere più saldamente la Cisgiordania. In questo caso darebbe ragione agli estremisti palestinesi di Hamas i quali sostengono che il governo ha lasciato Gaza solo perché era indifendibile dopo i loro attacchi e che quindi non le concessioni doverose, ma una lotta ad oltranza è la strategia anche per il domani.

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