Lettere in redazione
Lo «ius soli» e le offese alla Kyenge
Ius sanguini o ius soli? Con un susseguirsi di dichiarazioni il ministro all’integrazione Cecile Kyenge ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica lo scottante tema del riconoscimento della cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia. Lo «ius soli» (in latino «diritto del suolo») è un’espressione giuridica che indica l’acquisizione della cittadinanza a coloro che sono nati nel territorio dello Stato, qualunque sia la cittadinanza posseduta dai genitori. Si contrappone allo ius sanguinis («diritto del sangue»), che indica invece l’acquisizione di una cittadinanza per il fatto della nascita da un genitore in possesso di quella cittadinanza.
La Kyenge parla di uno «Ius soli» temperato, cioè lo «ius soli» che preveda la concessione della cittadinanza a coloro che sono nati in Italia però da genitori con un certo numero di anni di residenza sul territorio. Lo «ius soli» è criticato con ripetuti e scomposti attacchi al ministro Kyenge e non solo per le cose che dice o le proposte che fa, ma con battute ignobili o paragoni sul colore della sua pelle e la sua identità culturale.
Ritengo che un conto sia il dibattito politico e il confronto di idee, un altro gli insulti, peggio ancora se a sfondo razzista. Si può contrastare un avversario politico senza dileggiarlo o offenderlo, come invece è avvenuto.
Io sono dalla parte di Cécile Kyenge. Dalla parte dei diritti per lo «ius soli». Anzi mi spingo anche più avanti di lei, perché sono favorevole allo «ius soli» secco, che è quello che prevede la concessione della cittadinanza a chiunque nasca in Italia senza un minimo di residenza. Del resto, come dice anche la Boldrini, «chi nasce qui è italiano».
Sulle offese al ministro Kyenge credo ci sia ben poco da dire. Spero che tutti i nostri lettori siano daccordo: sono assolutamente inaccettabili e ricoprono di ignominia chi le fa. Altra cosa – ovviamente – sono le critiche al ministro per quello che fa o alle sue idee. Quanto allo «ius soli» penso che la proposta del ministro sia in sé buona, anche se formulata in un contesto (quello del governo Letta, che si regge sulle cosiddette «larghe intese») che la rende per ora impraticabile. Concedere la cittadinanza italiana a chi è nato nel nostro paese da genitori immigrati è una scelta di buon senso prima ancora che di civiltà. Condizionarla ad un periodo minimo di residenza in Italia è ragionevole, per evitare comportamenti speculativi.
Ricordo che gran parte del mondo cattolico che si occupa di immigrazione (dalle Acli alla Caritas, dal Centro Astalli alla Fondazione Migrantes) ha dato vita ad una campagna – «L’Italia sono anch’io» ( www.litaliasonoanchio.it )–, supportata da altre realtà «laiche», per raccogliere 50 mila firme a sostegno di una «riforma del diritto di cittadinanza che preveda che anche i bambini nati in Italia da genitori stranieri regolari possano essere cittadini italiani e una nuova norma che permetta il diritto elettorale amministrativo ai lavoratori regolarmente presenti in Italia da cinque anni».
Claudio Turrini