Toscana

Liturgia, torna il «Messale del 1962» come opportunità in più

Rendere più facile, per quei gruppi che ne facciano richiesta, l’uso del Messale conosciuto come «Messale di Pio V» o «Tridentino». È un desiderio che il cardinale Ratzinger, in passato, ha espresso più volte; ed è questo lo scopo del «Motu proprio Summorum Pontificum» che adesso Benedetto XVI ha scritto per ampliare l’«indulto» già concesso, nel 1984, da Giovanni Paolo II. Rispetto alle norme introdotte da Giovanni Paolo II, il nuovo provvedimento semplificherà l’iter da seguire per ottenere il permesso per l’uso del rito preconciliare: una decisione delicata, che il Papa ha voluto nei giorni scorsi illustrare personalmente ad alcuni rappresentanti delle varie Conferenze episcopali. Una novità però che non dovrebbe incidere più di tanto sulla vita delle parrocchie e delle comunità cristiane. La questione non riguarda, come molti giornali semplificando hanno riportato, il ritorno alla «Messa in latino»: il Papa, è vero, ha sollecitato l’uso della lingua latina ma solo per le grandi celebrazioni internazionali, come «linguaggio universale» della Chiesa. In questo caso invece il provvedimento riguarda l’uso del «Messale del 1962» (promulgato da Giovanni XXIII, ma con piccole modifiche a quello del 1570) che ha, con la Messa così come oggi viene celebrata, differenze che vanno oltre quella puramente linguistica. Con l’entrata in vigore del Messale di Paolo VI, nel 1970, l’uso di questo Messale (che veniva considerato «inglobato» nel nuovo) era stato vietato; ma non è mai stato abolito o cancellato.Lo spirito del Motu proprio Summorum Pontificum– almeno secondo quanto detto in passato dal Papa, e secondo le indiscrezioni trapelate sul provvedimento – è dunque quello di offrire, accanto al Messale di Paolo VI che continua a rappresentare la «forma ordinaria» della celebrazione eucaristica, il Messale di Pio V come opportunità in più, come forma «straodinaria». Il problema non è il latino«Torna la Messa in latino». Così hanno titolato nei giorni scorsi tutti i grandi mezzi di comunicazione, e non solo in Italia. Una semplificazione giornalistica, anche comprensibile, ma che non risponde a realtà. È vero che prima della riforma conciliare si usava solo quella lingua per le celebrazioni liturgiche e che da allora in poi si è tradotto il Messale in ogni lingua nazionale. Ma tra le lingue del nuovo Messale c’era ovviamente quella latina e si è continuato ad usarla in particolari circostanze. Nelle cattedrali o nei grandi santuari o monasteri, ad esempio, una delle Messe festive è in genere in latino. E al recente Sinodo sull’Eucarestia, la proposizione finale n. 36 (Le 50 proposizioni) auspicava l’uso del latino «(eccetto le letture, l’omelia e la preghiera dei fedeli)» «durante gli incontri internazionali, oggi sempre più frequenti, per meglio esprimere l’unità e l’universalità della Chiesa». Il «motu proprio» di Benedetto XVI tratta di un’altra cosa, come abbiamo cercato di spiegare in queste due pagine. Tratta della possibilità di usare per le celebrazioni eucaristiche, e in particolari condizioni, il «Messale del 1962», cioè l’ultimo Messale «preconciliare», basato quindi su quello del 1570 di Pio V, aggiornato da Giovanni XXIII mentre era in corso lo stesso Concilio. Estende in questo modo l’«uso» già concesso da Giovanni Paolo II ai «tradizionalisti» con un indulto nel 1984 e poi confermato con il motu proprio del 2 luglio 1988 «Ecclesia Dei afflicta», dopo lo «scisma» Lefevriano.

La nota esplicativa del Motu proprio

Il Motu proprio Summorum Pontificum è stato reso pubblico alle 12 si sabato 7 luglio, accompagnato da una «Lettera» ai vescovi di tutto il mondo. Contemporaneamente la Sala Stampa della Santa Sede ha diffuso una Nota Informativa relativa al Motu proprio della quale di seguito riportiamo i paragrafi più significativi.

“Il Motu proprio ‘Summorum Pontificum’ stabilisce nuove regole sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma compiuta nel 1970. I motivi per tali disposizioni sono chiaramente spiegati nella Lettera del Santo Padre i Vescovi, che accompagna il Motu proprio. (I due documenti sono stati inviati a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali e a tutti i Nunzi, che hanno provveduto a farli avere a tutti i Vescovi).

“La disposizione fondamentale è la seguente: la liturgia romana avrà due forme (“usus”):

a) la forma ordinaria: è quelle che segue la riforma liturgica fatta dal Papa Paolo VI nell’anno 1970, come si trova nei libri liturgici allora promulgati; ne esiste una edizione ufficiale in lingua latina, che può essere usata sempre e dappertutto, e traduzioni in diverse lingue volgari, edite dalle rispettive Conferenza Episcopali.

b) la forma straordinaria: è quella celebrata secondo i libri liturgici dal Beato Papa Giovanni XXIII nel 1962″.

Al punto 8 della Nota Informativa si legge che: “Il Vescovo del luogo può erigere una parrocchia personale, qualora in un luogo si trovi un numero di fedeli assai consistente che vogliano seguire la liturgia anteriore. Converrebbe che il numero dei fedeli sia consistente, anche se non paragonabile a quello di altre parrocchie”.

La Nota illustra anche alcune caratteristiche del Messale del 1962:

“È un Messale in lingua latina ‘plenario’ o ‘integrale’, che cioè contiene anche le letture delle celebrazioni (non è distinto dal ‘Lezionario’ come il successivo Messale del 1970).

Contiene una sola Preghiera eucaristica, il ‘Canone Romano’ (che corrisponde alla Preghiera Eucaristica I del Messale successivo, che invece prevede la scelta fra più Preghiere eucaristiche).

Diverse preghiere (anche gran parte del Canone) vengono recitate dal sacerdote a voce bassa, in modo non udibile dal popolo.

Fra le altre diversità si può ricordare la lettura dell’Inizio del Vangelo di Giovanni al termine della Messa.

Il Messale del 1962 non prevede la concelebrazione. Non dice nulla sull’orientamento dell’altare e del celebrante (verso il popolo o no).

La lettera del Papa prevede la possibilità di futuri arricchimenti del Messale del 1962 (aggiunta di nuovi Santi e Prefazi…).

La scheda: come è cambiata nel corso dei secoli

di Roberto GulinoDocente di Liturgia alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale

La «nostra» celebrazione eucaristica risale alle mani stesse del Signore Gesù, quando nell’ultima cena con i suoi apostoli, spezzando il pane e distribuendo il vino, affidò il suo corpo ed il suo sangue alla Chiesa, chiedendo di ripetere quei gesti e quelle parole per rivivere il mistero salvifico pasquale.

La «frazione del pane» – come era chiamata dagli apostoli – è diventata il momento culminante ed immutabile della preghiera fondante la comunità cristiana.

Nel corso del tempo abbiamo avuto vari modi di celebrare l’Eucaristia, ma tutti ruotano attorno a quelli che potremmo definire i fuochi centrali – e quindi invariabili! – di ogni Messa: l’ascolto della Parola del Signore e lo spezzare il Pane consacrato.

Nei primi secoli (san Giustino, attorno al 153 d.C., ne riporta una descrizione dettagliata nella sua I Apologia) sono già definiti questi elementi: il raduno unico domenicale, la proclamazione della Scrittura – antico e nuovo testamento –, l’omelia, la preghiera dei fedeli, il bacio di pace, l’offertorio, la preghiera eucaristica, la comunione e la raccolta per i più bisognosi.

Quando nel IV secolo cessano le persecuzioni, il cristianesimo si espande con grande velocità e si formano modi diversi di celebrare (si parla di «famiglie liturgiche» orientali – che rispecchiano la cultura e gli usi delle grandi città di Gersusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli – e famiglie liturgiche occidentali – che ruotano attorno a Roma, a Milano, alla regione Gallicana, Ispanica e Africana –).

Progressivamente, la liturgia eucaristica assunse forme e modelli esteriori dalle istituzioni romane (basti pensare alle vesti liturgiche e alle insegne episcopali) divenendo sempre più suntuosa nei suoi riti e articolata nel suo svolgimento.

Gradualmente si arrivò a celebrazioni difficili da capire e da seguire che generarono quello che potremmo definire «fenomeno devozionale»: non potendo partecipare e comprendere la liturgia, si sviluppano le altre forme di preghiera (per es. il Rosario durante la Messa).

Il «medioevo liturgico», con i suoi eccessi e le sue incomprensioni, portò, dopo il Concilio di Trento, ad un rito unico per tutta la Chiesa che voleva mettere ordine alla pluralità di usi, di preghiere e di visioni teologiche (per esempio contro Lutero si accentua il valore sacrificale della Messa ed il ruolo del sacerdote, aspetti che influenzeranno chiaramente il rito di san Pio V del 1570).

Dobbiamo aspettare il XIX secolo quando, dopo la riscoperta delle fonti liturgiche dei primi secoli, si assiste alla nascita di un rinnovamento liturgico che, partendo dagli ambienti monastici benedettini, infonderà l’esigenza dell’autentico e genuino spirito della liturgia.

Il Concilio Vaticano II, nel solco di tale tradizione, chiede la revisione dei riti per «assicurare maggiormente al popolo cristiano l’abbondante tesoro di grazia che la Liturgia racchiude» (Sacrosanctum Concilium 21). Da esso scaturisce, come proposta concreta, il Messale promulgato da Paolo VI – il «nostro» – nel 1970, esattamente quattrocento anni dopo quello di S. Pio V.

I due riti a confrontoNon è facile comparare i due riti perché il Messale di Pio V ha delle caratteristiche che strutturano tutto lo svolgimento della celebrazione:

l’assemblea è in ombra per lasciare spazio alla centralità assoluta del ministro ordinato (per esempio nel distribuire la comunione il sacerdote dice anche l’Amen finale, mentre il fedele, in ginocchio, riceve il Signore rimanendo in completo silenzio);

vi è una totale prevalenza del cerimoniale sul funzionale (segni di croce, inchini, genuflessioni, incensazioni sono ripetuti e sovrabbondanti durante tutto il rito);

il «rubricismo» è esasperato e vincolante alla corretta celebrazione (si indicano precisamente posizione degli occhi, delle braccia, delle mani, movimenti del turibolo…).

Comunque, qui di seguito, poniamo a confronto i due riti, considerando la celebrazione eucaristica domenicale e semplificando nei punti principali.

MESSALE DEL 1962PROMULGATO DA GIOVANNI XXIII (DETTO «DI SAN PIO V» O «TRIDENTINO» PERCHÉ QUASI IDENTICO AL RITO DEL 1570)

1) Accesso e preghiere ai piedi dell’altare:

segno di croce;

antifona: «Salirò all’altare del Signore»;

salmo 42: «Fammi giustizia, o Dio…»;

«Confesso a Dio onnipotente…» (detto prima dal sacerdote e poi dai ministri);

versetti: «O Dio volgiti verso di noi…»;

preghiera, salendo all’altare: «Togli da noi…».

2) riti iniziali all’altare

preghiera: «Noi ti preghiamo…»;

segno di croce;

antifona di introito;

«Signore, pietà»;

Gloria;

saluto liturgico;

orazioni.

3) liturgia della Parola

epistola;

salmo graduale;

alleluia con versetto;

Vangelo;

omelia (non sempre);

Credo.

4) offertorio

saluto liturgico;

antifona all’offertorio;

offerta del pane e del vino;

lavabo con versetti del salmo 25 «Laverò le mie mani…»;

preghiera: «Accetta, santa Trinità…»;

orazione sulle offerte.

5) preghiera eucaristica

l prefazio, Santo, canone romano;

6) Padre nostro

7) frazione del panecon l’invocazione «Agnello di Dio» 8) rito della pacee comunione del sacerdote

9) rito per la comunione dei fedeli (a parte!)

10) riti conclusivi

saluto liturgico;

orazione dopo la comunione;

saluto liturgico;

congedo;

preghiera: «Ti sia gradito, santa Trinità…»;

benedizione finale;

saluto liturgico;

Vangelo (prologo di Giovanni);

tornando in sacrestia si recita l’antifona «Dei tre fanciulli».

MESSALE ATTUALE(DEL 1970, DETTO «DI PAOLO VI»)

1) Riti di introduzione

ingresso del sacerdote e dei ministri;

segno di croce;

saluto liturgico;

atto penitenziale con «Signore, pietà»;

Gloria;

orazione

2) Liturgia della Parola

prima lettura;

salmo responsoriale;

seconda lettura;

canto al Vangelo;

Vangelo;

omelia;

professione di fede (Credo);

preghiera universale (o «dei fedeli»).

3) Liturgia Eucaristica

preparazione dei doni con canto all’offertorio;

orazione sulle offerte;

preghiera eucaristica (prefazio, Santo, epiclesi, racconto dell’istituzione, anamnesi, offerta, intercessioni, dossologia finale);

riti di comunione (preghiera del Signore, rito della pace, frazione del pane con l’invocazione «Agnello di Dio», comunione);

orazione dopo la comunione.

4) Riti di conclusione

eventuali avvisi;

saluto liturgico;

benedizione finale;

congedo.

La comunità partecipa e non assiste. Così il Concilio cambiò la Messa (intervista a p. Falsini)