Toscana

Liturgia, ecco il rito «straordinario»

Venerdì 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Croce. Ha scelto una data significativa Benedetto XVI per l’entrata in vigore del «motu proprio» che concede un uso «straordinario» del «Messale del 1962» di Giovanni XXIII. Una decisione che ha fatto molto discutere, scatenando gli entusiasmi dei «tradizionalisti» e le paure di tanti per un possibile ridimensionamento del Vaticano II. Reazioni esagerate entrambe, a ben guardare, perché la vita delle parrocchie non cambierà e solo piccoli gruppi radicati e stabili potranno chiedere di usare il rito preconciliare. L’intento del Papa, che ha proposto tre anni di sperimentazione, non è quello di dividere i fedeli, ma al contrario, di riassorbire le divisioni.

Il liturgista: Una gestualità molto rigida che il Concilio ha superato

di Roberto Gulinodocente di Liturgia alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale

Volendo evidenziare le maggiori differenze tra la ritualità della liturgia eucaristica «ordinaria» (la «nostra» Messa di oggi, chiamata anche «di Paolo VI») e quella che segue la forma extra-ordinaria permessa con il Motu proprio (il rito del 1962, che si rifà a quello «di san Pio V», o «tridentino») potremmo dire che cambia sostanzialmente la prospettiva di fondo! Dopo il Concilio di Trento, per evitare che ogni sacerdote decidesse per conto suo i gesti da compiere durante la Messa (non esisteva un unico Messale, ma diversi usi in base alle varie tradizioni liturgiche) ci fu la necessità di indicare con precisione tutti i movimenti che doveva compiere il ministro durante la celebrazione: come muovere le braccia, le mani, gli occhi, quali gesti assumere per incensare ecc… e questa ritualità era vincolante per una corretta celebrazione. Questo garantiva l’unità per tutta la Chiesa cattolica e l’ortodossia teologica di fronte ai diversi riti delle Chiese protestanti-riformate.

Questa preoccupazione non era più così urgente dopo il Concilio Vaticano II e potremmo dire che si passò da una «celebrazione obbligatoria» – dove ogni movimento era definito nei particolari – all’«obbligo della celebrazione», dove si sottolineano soprattutto le indicazioni di fondo (e questo non vuol dire lasciar spazio alla creatività personale!) per favorire l’autentica partecipazione di tutti i fedeli alla realtà del mistero celebrato.

Facciamo due esempi:– nel messale di S. Pio V dopo la consacrazione del pane in Corpo di Cristo il sacerdote è obbligato a non staccare più il pollice dall’indice (tranne chiaramente quando doveva riprendere l’ostia in mano) fino al momento della purificazione dopo la comunione, per evitare che qualche frammento consacrato rimasto casualmente sulle due dita possa cadere a terra; nel messale di Paolo VI non c’è questo obbligo, ma si richiama il sacerdote, ed i fedeli, a controllare l’eventuale presenza di frammenti consacrati.– al momento della dossologia che conclude la preghiera eucaristica, nel nostro messale il sacerdote prende il calice e la patena ed elevandoli dice: «Per Cristo con Cristo ed in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli». Tutti rispondono: «Amen». Secondo il messale di S. Pio V deve seguire le seguenti indicazioni : «Scopre il Calice, genuflette, prende l’Ostia tra il pollice e l’indice della mano destra, e tenendo con la sinistra il Calice, traccia tre segni di croce da un labbro all’altro del Calice, dicendo: “Per Lui, e con Lui, e in Lui”, con l’Ostia traccia due segni di croce tra sé ed il Calice, dicendo: “sia reso a te, o Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo”, elevando un po’ il Calice con l’Ostia, dice: “ogni onore e gloria”. Ripone l’Ostia, copre il Calice con la Palla, fa una genuflessione, poi si alza e dice a voce alta, oppure canta: “Per tutti i secoli dei secoli. Amen”».

Come si vede nel messale che precede il Concilio Vaticano II vi è una ritualità molto articolata; basti pensare che durante il rito del 1962 si contano non meno di 50 segni di croce (considerando quelli che il sacerdote fa su di sé, sulle cose e sull’altare), 19 genuflessioni, 9 baci all’altare e 18 preghiere che il sacerdote recita sottovoce per la propria devozione personale; modalità che era necessaria nel XVI secolo per creare l’unità che mancava e per rispondere alle esigenze di quell’epoca. Oggi, quella stessa ritualità, rischia di scadere nel rubricismo esasperato perdendo di vista la verità della celebrazione e la centralità del mistero pasquale. Ecco perché tale forma, chiamata appunto «extra-ordinaria», viene permessa dal Papa unicamente «dove esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica».

Firenze, così celebrano i tradizionalisti

«Ite, Missa est. Benedicamus Domino». «Deo gratias!». Da più di vent’anni nella chiesa di S. Francesco Poverino in piazza SS. Annunziata, a Firenze, è così che si conclude la liturgia eucaristica domenicale. Ripresa domenica 9 settembre alle 10,30, dopo una breve pausa estiva, la celebrazione della Messa secondo il Rito Romano Antico in latino è promossa dalla Confraternita di S. Girolamo e S. Francesco Poverino in S.Filippo Benizi, grazie ai permessi concessi dall’Arcivescovo di Firenze in base all’«indulto» di Giovanni Paolo II che, anche prima del «Motu proprio» di Benedetto XVI, consentiva in casi speciali l’uso del cosiddetto «Messale di S. Pio V».

Anche domenica scorsa i fedeli, che gremivano in buon numero le panche disposte parallelamente alle pareti della chiesa, seguivano con devozione, dimostrando preparazione per la solenne ritualità del rito tridentino. La celebrazione era presieduta da padre Vincent (missionario in Gabon), dell’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote di Gricigliano, sulle colline di Compiobbi). Il card. Antonelli ha difatti affidato, a partire da quest’anno, il servizio religioso per la comunità di S.Francesco Poverino ai sacerdoti di quest’Istituto, avendo sollevato dall’incarico, per le sue precarie condizioni di salute, padre Paolo Andreini, dopo un più che ventennale impegno. Lascia inizialmente un po’ spaesati l’ascolto della liturgia «tridentina». Ma sarebbe un errore pensare di trovarsi davanti un gruppo di persone coi capelli bianchi, «nostalgiche» della Messa pre-conciliare in latino: alla Messa erano presenti anche molti giovani. Uno di loro, Ascanio, ci dice di essere un affezionato di quest’appuntamento domenicale, di cui apprezza «la ritualità ed il raccoglimento».

Una coppia di giovani turisti, entrati per caso, si dichiara affascinata, anche se ammette che all’inizio «si prova la sensazione di un certo distacco per il sacerdote che officia di spalle rispetto all’assemblea».

«La scelta di celebrare la Messa domenicale in rito antico – ci spiega Dante Pastorelli, governatore della Confraternita – è stata dettata oltre che dalla tradizione e dalla storia della Confraternita, anche dalla profondità, religiosità e sacralità del rito tridentino». «Non possiamo che accogliere positivamente – aggiunge Pastorelli – il Motu Proprio. Sono convinto che l’iniziativa avrà successo soprattutto in alcuni paesi stranieri come l’Austria, la Francia e gli Stati Uniti, più che in Italia. La forza, la validità e l’attualità della liturgia tradizionale stanno nel fatto che essa riesce a preservare il senso profondo del Mistero che informa il culto divino, tenendo ferme due esigenze essenziali per il fedele: l’adorazione di Dio e la disposizione di sé stesso ad accogliere la sua grazia gratuita».

Giovanni SeminoDa Camaldoli un aiuto a comprendere le novità«La Riforma liturgica non è e non deve essere messa in dubbio»; «non si vuole e non si deve creare divisione»; «la partecipazione attiva deve essere salvaguardata». Queste le «idee guida» delle riflessioni sul Motu Proprio di Benedetto XVI, che la Comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di liturgia pastorale dell’Abbazia di S.Giustina di Padova e l’Associazione professori e cultori di liturgia (Apl) hanno preparato in vista dell’entrata in vigore delle norme (testo integrale sul nostro sito). Un’intervento, frutto della «settimana liturgica», tenutasi ai primi di agosto a Camaldoli e che vuol essere un contributo alle «delicate mediazioni che saranno necessarie per evitare che l’impatto della nuova disciplina possa generare nella realtà ecclesiale divisioni e contrapposizioni». «Vi sono nella Chiesa e tra gli uomini due forme del risentimento che devono essere superate – si legge nel testo – : quella verso il passato, che è il radicalismo, e quella verso il futuro, che è il compromesso. La riconciliazione cui mira il Motu Proprio dovrebbe tradursi in una prassi liturgica lontana tanto dal radicalismo senza passato, quanto dal compromesso senza futuro». «La presenza di una forma extraordinaria – questa la conclusione della riflessione – può essere compresa senza conflitto e in una logica di autentica riconciliazione soltanto nella misura in cui essa rimane strettamente limitata a condizioni oggettive e soggettive non ordinarie: condizioni che – come dice lo stesso Benedetto XVI – non si trovano tanto di frequente . Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto pastorale e spirituale da questo passaggio disciplinare, recuperando l’uso della partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio al mistero celebrato, e così purificando – grazie a questo nuovo uso – le proprie celebrazioni da ogni possibile abuso». Il testo è corredato da due tabelle (che pubblichiamo in questa pagina) riprese dal documento dei Vescovi americani «Twenty Questions on the Apostolic Letter Summorum Pontificum» e che mettono a confronto i due «riti». Un agile sussidio del liturgista Manlio SodiLe Edizioni Messaggero di Padova hanno pubblicato un agile opuscoletto («Il Messale di Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio», 48 pagine, e. 3,50), curato dal direttore di «Rivista liturgica» don Manlio Sodi, sacerdote della diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza che insegna all’Università Pontificia Salesiana di Roma. Il testo, scritto con grande chiarezza e competenza, spiega il significato del Motu Proprio di Benedetto XVI e soprattutto chiarisce con parole semplici cosa sia un Messale e quale sia stata la sua evoluzione nel corso dei secoli. A Pisa una notifica dell’arcivescovo PlottiNel mese di luglio l’arcivescovo di Pisa, mons. Alessandro Plotti, ha indirizzato ai suoi parroci una «notificazione» sull’applicazione in diocesi del «Motu proprio», sottolineando come il vescovo sia «il moderatore della liturgia per la propria Diocesi». «Il Messale di Paolo VI – ricorda l’Arcivescovo, citando il testo del Papa – rimane la “forma normale” e “ordinaria” della liturgia eucaristica» e perciò «il Messale romano anteriore al Concilio può essere usato come forma “straordinaria”». In pratica perché un parroco sia autorizzato ad usare il messale preconciliare è necessario che in quella parrocchia esista già «stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica» e che questi chiedano «esplicitamente al Parroco la celebrazione della Santa Messa secondo il rito pre-conciliare». Il Parroco dovrà però valutare «da una parte, se tale richiesta nasce da un sincero amore alla tradizione antica della chiesa, da una convinta accettazione del Concilio Vaticano II, e da una istanza seria e autentica di alimento spirituale; dall’altra, se il concedere tale celebrazione si armonizza con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, evitando la discordia e le divisioni». E anche se il «motu proprio» non lo prevede, l’Arcivescovo chiede comunque che venga consultato il Consiglio pastorale, è «che la decisione venga presa insieme al Vescovo».