Italia
«L’Italia da riprogettare e preservare nella nostra storia»
Non fermarsi al racconto dell’emergenza, ma continuare a tenere i riflettori accesi anche dopo le calamità naturali, per accompagnare l’opera di ricostruzione. Questo il filo rosso del convegno nazionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), che si terrà a L’Aquila dal 16 al 18 aprile e avrà per titolo «L’Italia da riprogettare e preservare nella nostra storia».
A tema, a cent’anni dal terremoto della Marsica e a sei da quello nel capoluogo abruzzese, la ricostruzione de L’Aquila anche come metafora della ricostruzione dell’intero Paese dopo la crisi. Alla vigilia dell’evento ne parliamo con Francesco Zanotti, presidente della Federazione che rappresenta 190 periodici con una tiratura complessiva di quasi un milione di copie ogni settimana.
Periodicamente, in Italia, registriamo tragedie legate a calamità naturali: nel 2009 il terremoto in Abruzzo, nel 2012 l’Emilia e il Sud della Lombardia; annualmente alluvioni e incendi. Quale comunicazione viene fatta dai media di questi eventi?
«La comunicazione nell’emergenza, grazie anche alla Rete, oltre che fondamentale è oggi molto diffusa e opportuna. Anzi, viviamo un eccesso di comunicazione. Il problema è quando passa l’alone emotivo. Noi, infatti, viviamo di aloni emotivi che, in breve tempo, scompaiono e lasciano il vuoto, travolti da una valanga comunicativa incessante, che rischia di travolgerci».
E così questi eventi tragici rischiano di essere dimenticati sempre più in fretta…
«Purtroppo è così. C’è una censura da sovrainformazione: gli eventi si accavallano così vorticosamente che vengono dimenticati».
La prima sessione del convegno avrà a tema «comunicare per ricostruire». Qual è il ruolo e quale la responsabilità dei media rispetto al «post-tragedia», ovvero per la ricostruzione?
«Prima di tutto solidarietà, condivisione, farci prossimi a chi soffre. Questo significa accompagnare gli eventi quando succedono. Ma anche dopo, continuare a svolgere il nostro compito di ‘cani da guardia’ del potere. Per esempio, a L’Aquila si fece un gran tam-tam per l’inaugurazione di alcune cittadelle. Ma che ne è stato a distanza di tempo? E non solo delle cittadelle fatte di pietre, ma soprattutto delle ‘cittadelle di persone’ disperse in vari luoghi dopo il sisma? Non dimentichiamo che la vera distruzione portata dal terremoto non è stata solo quella sotto gli occhi di tutti, ma anche delle comunità».
C’è forse un deficit del giornalismo d’inchiesta, soffocato da una tendenza all’omologazione e a fare questo mestiere stando solo dietro una scrivania?
«Il rischio che corriamo è di essere amplificatori di chi ha già tanta voce. Dovremmo invece dare voce a chi non ne ha, andare oltre gli slogan e raccontare le storie. ‘Vola’, mensile della diocesi dell’Aquila, è nato – grazie anche al sostegno del Sir – proprio da questo bisogno di far emergere la voce della comunità che, sulla propria pelle, aveva vissuto la tragedia del terremoto. Il difficile, nel nostro mestiere, è continuare a seguire le vicende, perseverare. E per questo non basta neppure il lavoro d’inchiesta, che ha un inizio e una conclusione».
Dopo il terremoto a L’Aquila, come ricordava, è nato «Vola», mentre in Emilia e Lombardia i giornali diocesani hanno accompagnato e continuano tuttora – settimana dopo settimana – a raccontare la ricostruzione…
«Continuare a seguire le vicende non è facile e la stampa del territorio e di opinione, in questo, ha un ruolo fondamentale e insostituibile. Riesce a fare quello che anche al grande inviato è precluso. Chi sta sul posto può raccontare un’‘altra’ realtà, e questo è il compito fondamentale dei nostri giornali, che ci deve contraddistinguere. Certo, è faticoso, soprattutto in tempi di ristrettezze. Vuol dire che bisogna uscire dalle redazioni e stare tra la gente».
Da una parte c’è un «eccesso di comunicazione», dall’altra, però, i giornali locali vivono una forte crisi anche per i continui tagli al fondo per l’editoria. A tal proposito, poco tempo fa è partita la campagna «Meno giornali meno liberi». Perché c’è bisogno di tutelare la stampa del territorio per salvaguardare la libertà?
«Si tratta di tutelare la qualità dell’informazione. Il rischio è di perdere quei giornali che hanno il coraggio di andare controcorrente, che escono dal coro, che cercano di far vedere aspetti solitamente ignorati dai mass media. L’effetto tam-tam fa sì che una stessa notizia rimbalzi su tutti i media e venga amplificata, mentre quei fatti che non trovano spazio è come se non esistessero. Noi vogliamo dar voce a questi ultimi. Mettere a tacere un’informazione in un certo senso depressa da continui tagli al fondo per l’editoria – che invece noi vogliamo chiamare contributo alla democrazia informativa, alla libertà d’informazione e al pluralismo – vuol dire mettere il bavaglio a una parte del nostro Paese».