Accenni alla questione sociale sono già rintracciabili nel I Congresso dei cattolici italiani tenutosi a Venezia nel giugno del 1874. In quella sede venne infatti raccomandata la costituzione di società di mutuo soccorso, con fini caritativo-assistenziali, nonché affrontato il problema gravissimo delle conseguenze sui contadini della speculazione usuraria. Costituitasi l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, e in particolare la sua sezione, detta «della carità e dell’economia cattolica», la «questione operaia» fu nuovamente dibattuta al Congresso di Bergamo (ottobre 1877), che creò pure l’Istituto di Studi Sociali.Al Congresso di Lucca (1887) fu confermato e precisato l’indirizzo corporativo, con un esplicito richiamo alle esperienze già fiorenti del movimento sociale cattolico in Francia, Belgio, Germania, Austria e nel mondo anglosassone (Von Ketteler, Vogelsang, De Mun, La Tour du Pin, Freppel, Harmel, Doutreloux, Manning e Gibbons, Mermillond e Decurtins). Il Congresso condannò duramente la legislazione anticorporativa liberale, giudicandola responsabile di aver abbandonato l’operaio alla mercé del padrone, e dunque di aver originato l’odio di classe e il sindacalismo socialista, bollato come il figlio degenere dell’individualismo materialista liberale. La II Sezione, allora significativamente denominata «dell’economia sociale cristiana», propugnò dunque «di riunire in una vasta famiglia professionale tutti coloro che sono addetti ad uno stesso ordine di produzione» allo scopo di conciliare cristianamente le classi, intese nel senso «integrale» di autentici organismi sociali. La II Sezione auspicò anche, coerentemente, la progressiva trasformazione delle società di mutuo soccorso esistenti in società miste di datori di lavoro e lavoratori.La condanna cattolica dell’individualismo liberale era all’origine di tipo squisitamente filosofico-morale, negando essa non tanto la libertà economica e d’impresa in sé (la grande industria oligopolistica, o addirittura monopolistica, sviluppatasi in Italia grazie al protezionismo, sarà criticata, del resto, anche dalla non sospetta scuola liberista laica), quanto l’utilitarismo materialistico e l’ottimismo dell’assunto smithiano dell’esistenza di una «mano invisibile», cioè di una razionalità non trascendente, con carattere di «provvidenzialità», capace di trasformare automaticamente il massimo dell’egoismo, e dell’edonismo, individuale nel massimo dell’interesse generale. Non a caso il cattolicesimo sociale dell’Opera escludeva pure che il massimo dell’egoismo di classe, cioè della classe operaia, esprimesse la direzione della storia e costituisse il risolutivo strumento umano per il conseguimento della giustizia.Nel 1889 Giuseppe Toniolo fondò a Padova l’Unione Cattolica per gli Studi Sociali in Italia (già dal 1884 esisteva l’Unione Internazionale per gli Studi Sociali di Friburgo). Ma fu soprattutto con la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII che il nuovo indirizzo democratico cristiano, di cui fu anima Toniolo, decollò all’interno del movimento cattolico rispetto all’intransigentismo temporalista alla Paganuzzi e al vecchio intransigentismo sociale alla don Davide Albertario (uomo, peraltro, aperto al dialogo con le nuove generazioni cattoliche). L’enciclica papale, oltretutto, risolse il contrasto, a lungo paralizzante, tra la corrente liberista del movimento cattolico (Scuola di Liegi) e quella favorevole a un moderato intervento statale (Scuola di Angers), a favore della seconda.Basteranno pochi dati per dar ragione dello sviluppo democratico cristiano in Italia successivo alla Rerum Novarum: le società operaie passarono dalle 284 del 1891 alle 921 del 1897; le casse rurali, sorte a partire dal 1892 per opera di don Luigi Cerutti (allievo, come Toniolo, di Luigi Luzzatti, laico e liberale, ma propugnatore del riformismo sociale) erano già 705 nel 1897; nel 1895 nacquero i primi segretariati del popolo, cioè i primi sindacati operai; nel 1893 prese a uscire la «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», diretta da Toniolo e da monsignor Talamo; nel 1898 comparve la «Cultura Sociale» di don Romolo Murri; nel 1897 si formò la corrente della «giovane» democrazia cristiana, di cui fu organo anche «Il Popolo Italiano» di Genova, diretto dal futuro fondatore della Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL), Giambattista Valente; nel 1900, pur già in mezzo ai contrasti fra intransigenti e «giovani» democratici cristiani, il Congresso di Roma votò il significativo o.d.g.Toniolo, con cui si autorizzava la costituzione di unioni professionali di soli lavoratori con compiti sindacali.Fin dal Programma dei cattolici di fronte al socialismo, detto di Milano (1894), il Toniolo e la sua Unione avevano sostenuto la necessità di consentire la formazione di unioni professionali di soli lavoratori, quando i datori di lavoro non avessero accolto la proposta di parteciparvi. Il congresso di Pavia dell’Opera del 1894 stabilì che i cattolici non potessero aderire alle Camere del Lavoro atee e classiste; ma indicò nelle società operaie cattoliche esistenti lo strumento per il collocamento e la tutela della manodopera. Tre anni dopo, nel 1897, nel celebre saggio «Il concetto cristiano della democrazia», apparso sulla «Rivista internazionale di scienze sociali» da lui fondata, Toniolo definì la democrazia come «quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori».Avverso a qualsiasi forma di statalismo, perché sostenitore del primato della legge morale, dell’ordine naturale, della società civile, Toniolo batteva comunque bandiera riformista, visto che il suo programma sociale può ben apparire oggi, sia pur sfrondato di tutto ciò che la storia ha superato, un programma di democratizzazione del mercato, ostile a un «capitalismo selvaggio» e senza regole, alle concentrazioni monopolistiche od oligopolistiche, al predominio della plutocrazia finanziaria, ai «poteri forti» incontrollati. Un programma, insomma, teso a orientare l’economia di mercato al fine etico dello sviluppo e della crescita, morale e materiale, di tutti previa tutela della libertà economica e d’impresa. Nell’epoca in cui i socialisti non revisionisti teorizzavano, sbagliando, la semplificazione dicotomica della società, Toniolo puntava invece sulla carta di una maggiore articolazione economica e sociale, convinto che nel pluralismo e nell’autonomia dei suoi soggetti risiedesse la prima ragione della libertà, della vitalità, del progredire di una società civile.Certo: rimasero nell’atteggiamento democratico cristiano anche successivo a Toniolo suggestioni atroficamente nostalgiche di un passato non resuscitabile. Guardando, però, alla sostanza e in prospettiva storica, non possiamo non rilevare la modernità di fondo di una concezione tutta imprenditoriale e sociale della proprietà e del lavoro, concezione alla base pure del programma contadino, mirante ad elevare le masse delle campagne alla condizione di produttori consapevoli tramite il risparmio, la responsabilità individuale e famigliare, il rischio e il sacrificio personali, la voglia di apprendere e di migliorarsi. L’azionariato e la compartecipazione operaia (contrapposti al «controllo operaio» dei socialisti) s’ispiravano alla stessa filosofia, così come il cooperativismo cattolico, che, rifiutando ogni logica statalista e assistenzialistica, voleva esser frutto solo di libera scelta e di spontanea iniziativa dal basso. Allo Stato erano richiesti non intrusivi, ma strategici, interventi a difesa dei più deboli («salario minimo», riforma tributaria, legislazione sociale e del lavoro), ma anche della libertà di mercato e d’imprenditoria, nonché d’accesso al credito. Così Toniolo intendeva restituire alla persona, alla famiglia, al lavoro il ruolo di protagonisti nella vicenda terrena dell’uomo. *docente di storia contemporanea vicepresidente della fondazione «Opera Giuseppe Toniolo» di Pisa