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Libano, effetto tregua

di Romanello CantiniDopo tre settimane dalla sua proclamazione, la tregua in Libano regge, nonostante l’odio e l’insoddisfazione che la guerra ha seminato da una parte e dall’altra.

Paesi europei, come la Francia – che si tenevano al largo da ogni intervento con uomini e mezzi in Medio Oriente dopo lo smacco e le perdite subite con i massacri di Beirut di ventitre anni fa – si sono lasciati di nuovo persuadere a inviare una forza di pace. Altri, come la Germania, si sono decisi per la prima volta a contribuire a un opera di pacificazione con propri soldati; anche se, da parte tedesca, c’è il terrore di cadere in una recidiva immagine, anche se fortuita, di un militare tedesco che si trova ad affrontare un ebreo. In sostanza, l’Europa, a cominciare dall’Italia, ha deciso di assumersi ora una ruolo di protagonista che rompe di fatto una lunga partita di ping pong giocata finora quasi esclusivamente fra Gerusalemme e Washington.

Della forza di pace faranno parte anche contingenti di Paesi islamici, come il Qatar e la Turchia, a significare, anche se in forma quasi simbolica che l’opera di pacificazione non è un prodotto esclusivo di marca occidentale.Israele ha accettato alla fine di togliere il blocco aeronavale al Libano e di lasciare il compito di controllare l’eventuale rifornimento di armi ad Hezbollah alla forza internazionale dell’Unifil che si sta dispiegando. Il governo Olmert, sempre più in difficoltà per una serie di piccoli scandali personali e per una condotta della guerra su cui si chiedono da ogni parte commissioni di inchiesta, riapre di nuovo la porta del dialogo con il capo dell’Autorità palestinese Abu Mazen, il quale nel frattempo ha annunciato di aver raggiunto un accordo per un governo di unità nazionale.

Le aggressioni antisraeliane nel Sud del Libano e a Gaza, le due zone calde da cui Israele si è ritirata unilateralmente, hanno messo in crisi il progetto di Olmert di ritirarsi unilateralmente anche dalla Cisgiordania. Al di là del programma di affidare la sicurezza di Israele a un muro e a un confine costruito su misura, riprende quota l’idea del negoziato bilaterale, anche se minacciato dalla riconquistata popolarità della destra di Netanyahu in Israele e dal rifiuto di riconoscere lo Stato ebraico da parte dei palestinesi di Hamas.

Tutto sembra affidato a un prolungamento della tregua in una sorta di incantesimo quasi miracoloso e alla verifica di tante pie intenzioni fra cui è difficile setacciare la franchezza dalla ipocrisia. Poco prima di aprire ad Abu Mazen, il leader israeliano Olmert ha promesso un nuovo insediamento di 700 abitazioni in Cisgiordania. In Siria il presidente Assad sembra promettere addirittura un pattugliamento ai confini del Libano per impedire il traffico di armi ed esplosivi, ma una settimana fa a Beirut è stato organizzato un attentato contro Samir Chehadè, il capo della sicurezza che indaga sull’assassinio attribuito alla Siria dell’ex-primo ministro Rafic Hariri. A Kofi Annan, che ha visitato in una sorta di pellegrinaggio lampo le capitali della regione, i responsabili iraniani hanno spiegato che rispetteranno la risoluzione 1701 sulla tregua, ma non accetteranno il disarmo degli Hezbollah.

“Le migliori amicizie – diceva Stalin – si basano sempre su dei grandi malintesi”. E, tuttavia, ogni giorno di tregua che passa consolida uno stato di fatto per cui qualsiasi ripresa delle ostilità sarà sempre più difficile a mano a mano che prosegue il dispiegamento delle forze di pace. Ma ci sono anche alle porte due appuntamenti scottanti che nei prossimi giorni potrebbero spingere i veri protagonisti della crisi in una direzione o in un’altra: la decisione o meno dell’Onu di creare un tribunale internazionale per l’assassinio di Hariri e le eventuali sanzioni del Consiglio di sicurezza contro l’Iran per il nucleare.