Lettere in redazione
L’equazione Pil=ricchezza è una truffa
Ho letto la sua risposta al signor R.L. nel numero del 9 novembre (Meglio tornare ai valori della civiltà contadina). Lei continua a tenere conto del Pil come ad un indicatore a cui fare riferimento, nonostante accenni ad una larvata critica al liberismo. Purtroppo per lei il Pil «misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani», sono parole di Robert Kennedy tre mesi prima di essere assassinato. Il Pil e questa economia in generale non tengono conto della nostra salute, della solidità dei valori familiari e della giustizia nei nostri tribunali. Cresce invece con la produzione di armi, con quella degli inceneritori, di TAV e di nuove autostrade. L’equazione Pil=ricchezza è una truffa.
A questa economia fasulla sono stati sacrificati ambiente, valori, cultura,civiltà. Il risultato? Questo mondo di carta sta crollando su se stesso, trascinandoci drammaticamente con sé.
Questo modello di sviluppo non è più sostenibile: ci sono cose fondamentali per le persone umane che non possono divenire merci. L’economia dovrà prenderne atto, è in gioco la nostra stessa sopravvivenza. A nessuno si puole augurare di divenire più povero, ma domandiamoci se un po’ meno di ricchezza materiale non possa portarci a una maggiore ricchezza di diverso tipo, anche spirituale.
Nella risposta che lei cita ho precisato subito che «la crescita del prodotto interno lordo non porta automaticamente con sé migliori condizioni di vita per tutti i cittadini». Ma e questo era il senso della mia risposta non possiamo gioire nemmeno di un Pil negativo perché «l’impoverimento economico di un paese… ha sempre significato difficoltà per ampie fasce della popolazione e un aumento di quella nella soglia della povertà». Non sono un economista e non pretendo di addentrarmi in un tema molto dibattuto e complesso. Mi limito a ricordare che il «Pil», come lo conosciamo oggi, è una formula matematica messa a punto negli anni ’30 negli Usa, sommando il valore complessivo dei beni e servizi prodotti e destinati ad usi finali (consumi finali, investimenti, esportazioni nette). I limiti di una contabilità del genere sono evidenti. Il Pil, ad esempio, tiene conto solo delle transazioni in denaro e trascura tutte quelle a titolo gratuito (il volontariato, ad esempio, non lascia traccia!). Inoltre, tutte le transazioni sono considerate come positive e si sommano, dalla produzione delle patate alla vendita delle armi o della droga. Paradossalmente ridurre gli incidenti stradali o quelli sul lavoro fa diminuire il Pil. Inoltre non si tiene conto del deprezzamento del capitale naturale e ambientale. In altre parole, se io trasformo una vigna di pregiato Brunello in una discarica, incremento il Pil, perché ho impiegato manodopera e materiali, ma difficilmente ho fatto crescere la ricchezza vera del Paese. E in ogni caso il Pil è sempre un misuratore puramente economico, che non tiene conto delle disuguaglianze sociali e che non si cura della qualità della vita delle persone e della loro soddisfazione.
Le Nazioni Unite utilizzano dal 1993 un diverso indice l’HDI (Human development index) un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq. È la media aritmetica di tre diversi indici: quello dell’aspettativa di vita, quello dell’educazione (a sua volta composto dal livello di istruzione degli adulti e dall’indice lordo di iscrizioni scolastiche) e, infine, quello del Pil. Per l’Hdi (rapporto 2003) i migliori paesi sono nell’ordine: Islanda, Norvegia, Australia, Canada, Irlanda, Svezia, Svizzera e Giappone (l’Italia è al 20° posto). Gli ultimi, partendo dal basso: Sierra Leone, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Niger, Mali e Mozambico. Come vede, però, anche in questo caso non si tralascia il dato del Pil che finora, pur con tutte le riserve che abbiamo ricordato, è l’unico mezzo per «misurare» globalmente la crescita economica di un Paese.