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L’enciclica di Benedetto XVI, un inno all’Amore
Questa parola il Pontefice lo sa bene è ormai talmente abusata da aver assunto significati del tutto differenti. E la prima parte dell’enciclica è dedicata prevalentemente a indagare su quello evangelico, espresso dal termine agape (amore che si dona), chiedendosi se esso abbia a che fare con ciò che oggi più spesso si chiama «amore», vale a dire con l’eros (amore di desiderio). Se così non fosse, la «buona notizia» portata da Cristo «risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell’esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell’esistenza umana». Siamo lontani da ogni pia retorica e riportati alla questione decisiva che oggi concerne non l’astratta validità del cristianesimo, ma la sua capacità di interessare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo.
La risposta è affermativa: «In realtà eros e agape amore ascendente e amore discendente non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro»: senza dono di sé, «l’eros decade e perde la sua stessa natura». D’altra parte, però, l’essere umano «non può sempre soltanto donare», se non altro perché «chi vuol donare amore deve egli stesso riceverlo in dono». Ciò implica una profonda revisione del nostro modo attuale di concepire l’eros, che non è sfrenata passione, ma, se non vuole strumentalizzare l’altro, deve saper integrare le sue potenzialità sessuali nel più complesso dinamismo della persona, unità di corpo e di anima. Ma è necessario altresì che anche l’agape venga compresa alla luce di testi come il Cantico dei cantici, che esprimono «l’amore appassionato di Dio per il suo popolo per l’uomo», amore per cui Egli, incarnandosi «lo segue fin nella morte». Materialismo e spiritualismo sono entrambi banditi da questa visione, che supera felicemente il dualismo tra eros e agape, riconducendoli a un’unità di cui la vita umana ha bisogno per fiorire.
La seconda parte dell’enciclica è dedicata all’«esercizio dell’amore da parte della Chiesa come comunità d’amore». Il Papa sottolinea che non c’è alcun contrasto tra il perseguimento della giustizia, che è compito della politica, e la carità cristiana. La dottrina sociale cattolica «non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa ( ) Essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse». È compito, invece, dei fedeli laici, in quanto cittadini, «operare per un giusto ordine nella società”, facendo sì che l’amore, come ispira l’intera loro esistenza, animi “anche la loro attività politica, vissuta come carità sociale».
Ma la politica e la giusta organizzazione della vita associata non rendono superflua la carità di cui la Chiesa, in prima persona, si fa portatrice attraverso le sue iniziative. «Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo». Bisogna lasciare che dal basso, in particolare attraverso il volontariato, la società esprima la sua creatività nel soccorrere i più deboli e bisognosi. «Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali». Senza alcuna pretesa, con questo di risolvere tutti i problemi, ma nell’umiltà di chi «farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore».
Il testo dell’Enciclica «Deus caritas est»