Toscana
Le «Unioni di fatto» tra pubblico e privato
Stipulare un Pacs è semplice. Basta presentare una dichiarazione congiunta nella quale si afferma di voler instaurare una vita comune e depositarla presso la cancelleria del Tribunal d’Instance di residenza. È essenzialmente un contratto patrimoniale, non prevede né la fedeltà né l’obbligo di soccorso e assistenza ed è sempre modificabile. Facilissimo è anche chiudere un Pacs. Basta notificare la decisione congiunta o unilaterale allo stesso tribunale. Il Pacs, naturalmente, cessa di esistere anche se un partner muore o si sposa. Ciò che soprattutto accende la discussione è che a stipulare un Pacs possa essere una coppia dello stesso sesso.
Noi diciamo Pacs alla francese. Ma il primo paese europeo a riconoscere le unioni omosessuali è stata la Danimarca nel 1989. I Pacs poi non vanno confusi con il diritto in sé degli omosessuali di sposarsi, esattamente come gli eterosessuali, come è stato deciso in Spagna undici mesi fa e come è previsto in Olanda dal 2001, in Germania dal 2002, e così via. Sono cose diverse, ma l’orizzonte culturale è il medesimo. Perché non è un segreto che le proposte di legge italiane, che parlino esplicitamente di Pacs o più prudentemente di unioni civili, per il movimento gay e i loro sostenitori sono soltanto un primo passo per giungere al matrimonio gay e all’adozione dei figli, ossia alla piena parità con le coppie composte da uomo e donna.
Ma perché la dichiarazione di Rosy Bindi ha suscitato tanta agitazione, scatenando gli applausi di radicali, verdi, comunisti e diessini, e il mal di pancia di molti colleghi della Margherita e dell’Udeur, per non dire delle grida dall’allarme del centrodestra? Tutto ruota attorno a quei due aggettivi: privato, pubblico. Nessuno in realtà vuole negare alle unioni di fatto, etero o gay, i diritti fondamentali in realtà pochi a cui non possono ancora accedere. Ma, affermano gli oppositori dei Pacs, è sufficiente ricorrere al diritto privato, senza rendere pubblico davanti a un pubblico ufficiale quello che diventerebbe un matrimonio light, leggero, solubile, gravido di diritti e sgombro di doveri, accanto al matrimonio heavy, pesante, l’unico oggi possibile.
È la posizione assunta dalla Cei per bocca del cardinale Camillo Ruini. È la posizione del leader della Margherita, Francesco Rutelli. È la posizione che sembrava uscita vincente quando era stato stilato il programma dell’Unione. Una posizione non nuova. L’avevano presa già nel 1998 gli stessi vescovi francesi: «Il diritto offre sufficienti possibilità per regolare i problemi sociali ed economici che incontrano certe persone che non possono o non vogliono sposarsi. Non è dunque necessario scrivere in una legge un nuovo statuto relazionale che rischia di destrutturate soprattutto il significato della coppia e della famiglia».
Di Pacs sentiremo parlare sempre di più, dunque. E sarà importante capire bene tutto, cominciando dagli aggettivi. Se poi siano davvero i Pacs l’emergenza prima e assoluta per le coppie italiane, i dubbi sono legittimi. E le famiglie che non arrivano a fine mese? E le madri che dopo la gravidanza non sono agevolate a reinserirsi nel mondo del lavoro? E gli asili nido insufficienti? E le tante coppie con una lavoro precario che non possono sposarsi? In realtà, stando alla stima insospettabile del demografo Livi Bacci, sostenitore dei Pacs, le coppie italiane che lo stipulerebbero il primo anno non sarebbero più di 10-15 mila. L’Arcigay parla di tre milioni di potenziali pacsisti discriminati. C’è ancora da fare molta chiarezza, oltre l’ideologia e la demagogia.
Politiche, confronto sui programmi