Opinioni & Commenti
Le tante incognite dopo la «primavera araba»
di Romanello Cantini
Nel mondo arabo dopo la primavera viene l’autunno? In effetti un anno e mezzo dopo l’esplosione della cosiddetta «primavera araba» segnali negativi si infilano sempre più spesso dentro ai segnali positivi della prima ora e rendono difficile non solo fare un bilancio, ma anche azzardare qualche previsione affidabile su come alla fine il tutto andrà a finire.
Non c’è dubbio che oggi in quasi tutti i paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo sono finite le dittature e per la prima volta nella loro storia si sono tenute o si tengono elezioni democratiche che hanno portato al governo dei civili al posto dei soliti generali e colonnelli. Tuttavia l’esperienza dimostra che non basta cacciare un dittatore perché arrivi subito una vera democrazia. Nei paesi della «primavera» anche i diritti finalmente conquistati non vanno a ruba. In nessuna delle elezioni che si sono tenute nell’ultimo anno la partecipazione elettorale ha superato il cinquanta per cento.
In paesi sostanzialmente monolitici è arrivata la democrazia senza trovare sul posto dei veri partiti. Coloro che un anno fa fecero la rivoluzione nelle piazze con idee che in qualche modo potevano dare vita a partiti moderni sono rimasti divisi e largamente minoritari al momento di andare a riempire le urne.
Una volta saltato il tappo del dittatore sono rimaste sul campo e si sono scontrate nella competizione elettorale soprattutto le forze presenti nel paese da sempre seppure in ruoli diversi. Da un lato i militari più meno riciclati del vecchio regime e dall’altro le confraternite religiose diffuse da sempre nella società civile. Solo che ora i militari sono stati sconfitti anche se di poco alle elezioni e i leader religiosi, che in passato erano interdetti alla vita politica quando non erano incarcerati, sono andati al potere dovunque si è votato.
Ora il rischio che si profila all’orizzonte è quello di una diffusione a tappeto dell’integralismo islamico anche se in questo termine si infilano in genere esperienze molto diverse e molto distanti fra loro in fatto di radicalismo e di moderazione. Semmai quello che più preoccupa è un radicalismo che a livello di popolazione sembra spesso più aspro che fra gli stessi gruppi che hanno preso il potere e che può spingere anche i moderati al fanatismo.
In Libia l’unico paese in cui ancora non si è votato sembra che le elezione saranno un duello fra da due capi militari che ancora sono a capo di migliaia di uomini armati. Da un lato ci sarà Abdallah Neker, il comandante militare di Tripoli, e dall’altro Abdel Hakim Belhaj, un personaggio inquietante, ex-combattente in Afganistan ed ex- prigioniero a Guantanamo in quanto accusato di appartenere ad Al Qaeda. Nel gennaio scorso a Bengasi Khaled al- Werchefani, un ex-appartenente ai Fratelli Musulmani, ha fondato il partito della Riforma e dello Sviluppo che chiede apertamente la introduzione della Sharia nella Costituzione. Poche settimane fa a Bengasi c’è stato un attentato alla sede della Croce Rossa perché accusata di distribuire Bibbie e di praticare la cristianizzazione.
In Tunisia dove è al potere il partito religioso moderato Ennada che tollera anche la distribuzione degli alcolici e non vuole imporre a nessuno il velo si sono avute tuttavia nelle scuole aggressioni a insegnanti non velate e il 13 luglio scorso un gruppo salafista ha preso d’assalto a Tunisi una mostra di opere d’arte moderne (per la verità provocatorie se non blasfeme). Nello stesso periodo è apparsa sui vari siti internet del paese un appello ai tunisini di Ayman Al-Zawahiri, il successore di Bin Laden a capo di Al Qaeda, perché reclamino l’adozione della legge coranica, la cosiddetta sharia. Anche in Marocco che pure è stato appena sfiorato dalla «rivoluzione dei gelsomini» e che permette ancora i concerti di Shakira e di Elton John il partito islamico della Giustizia e dello Sviluppo che per la prima volta ha ottenuto ben un terzo dei seggi alle elezioni dell’ottobre scorso si oppone alla introduzione della libertà di coscienza nella Costituzione, chiede la proibizione delle bevande alcoliche, la chiusura delle spiagge durante il Ramadan, la soppressione del telegiornale in francese e perfino una riduzione del turismo.
In Egitto la elezione a presidente della repubblica di Mohammed Morsi, un rigido funzionario dei Fratelli Musulmani ha inquietato la minoranza dei dieci milioni di cristiani coopti. Morsi nel suo primo discorso da presidente ha cercato di tranquillizzare gli animi proclamandosi presidente di tutti e giungendo ad offrire ai coopti la vicepresidenza. Tuttavia non si può dimenticare che nel loro programma per le elezioni del 2007 i Fratelli Musulmani chiedevano l’interdizione della presidenza del paese ad un coopto e ad una donna e l’esame preventivo di un consiglio di ulema per ogni progetto di legge. Fra i progetti di legge che i Fratelli Musulmani hanno presentato in parlamento negli ultimi sei mesi ce ne è uno che chiede che alla madre divorziata siano tolti i figli e un altro che chiede la pena di morte per chi «insulta» il Profeta.
Ma anche in Egitto a preoccupare è più il clima che si sta instaurando nel paese che l’azione delle forze politiche. In quindici mesi sono state incendiate quattro chiese (due al Cairo). Il 2 ottobre scorso nella capitale una manifestazione dei coopti per le aggressioni subite è stata repressa dall’esercito al prezzo di venticinque morti. Nel maggio scorso a Beni Saif nel Medio Egitto nel corso di un processo per degli scontri interreligiosi il tribunale ha assolto gli otto musulmani incriminati e condannato a venticinque anni dodici cristiani. Certi episodi sembrano addirittura inaugurare una situazione tipo Pakistan. Nel marzo scorso a Assiut nell’Alto Egitto un cristiano, Makran Diab è stato condannato a sei anni di prigione «per avere insultato il profeta» mentre davanti al tribunale c’erano migliaia di islamici armati di coltello che chiedevano la pena di morte. Non c’è comunque nessun paragone fra questi episodi di intolleranza è l’assassinio mirato dei cristiani che ormai è praticato in paesi dell’Africa profonda come la Nigeria e il Kenya. La convivenza interreligiosa nell’Africa mediterranea, anche se minacciata, dipenderà dalla evoluzione che i nuovi regimi avranno nei prossimi anni. I nuovi governi devono rispondere a forze ancora potenti come la monarchia in Marocco e i militari in Egitto.
Devono essere inoltre messi alla prova di fronte alle gravi emergenze economiche delle popolazioni. E sono ancora lontani dal rappresentare la maggioranza reale del paese visto che, per esempio, in Egitto per il forte astensionismo i Fratelli Musulmani hanno vinto con il voto di un egiziano su quattro. In ogni caso bisogna ricordare, a noi per avere speranza e ai Fratelli Musulmani perché abbiano coerenza, che anche il movimento fondato ottanta anni fa da Hassan Al-Banna almeno in linea di principio ha proclamato da sempre la non violenza e il diritto per ebrei e cristiani a convivere con i musulmani.