Cultura & Società
Le profacole
Nella narrativa popolare un consistente numero di brevi racconti della tradizione orale è costituito da storie che trattano temi religiosi ed hanno come protagonisti Dio stesso, figure dell’Antico testamento, i componenti della Sacra Famiglia, Cristo dell’infanzia e adulto, San Pietro e raramente qualche altro apostolo. Sono le profacole.
Desumendo le storie dalla tradizione orale Carlo Lapucci ha raccolto, ordinato, spiegato e annotato questo evangelario popolare: su tratta di leggende della narrativa orale sistemate in una raccolta che risulta esauriente per tutta la zona italiana. I testi sono confrontati con i documenti biblici, i vangeli apocrifi, la tradizione devota, la letteratura e tutti gli altri settori dove il genere ha trovato ospitalità.
Questi apologhi costituiscono un vero e proprio ciclo, un genere ben identificabile nel quadro del materiale letterario e, per essere rimasti sommersi rispetto a forme più vistose di cultura orale, non sono stati presi in considerazione che marginalmente, o posti in appendice delle raccolte, per cui spesso sono stati giudicati come gustose divagazioni o paradossi. Presi nel loro insieme, invece, si rivelano portatori d’una riflessione profonda e sembra a noi che costituiscano un capitolo essenziale per comprendere la religiosità popolare.
Il tono spesso è ironico, ma non completamente. L’ironia nasconde una sostanziale serietà e una riflessione talvolta profonda sulla vita e i suoi interrogativi. Il tipo di religiosità è segnato da un forte senso della trascendenza e, al tempo stesso, una stretta partecipazione del divino alla vita terrena della natura e dell’uomo.
Il corpo più consistente di queste vicende ha come protagonisti Gesù e San Pietro che vanno pellegrini per il mondo, raramente da soli, quasi sempre in coppia. Queste narrazioni si sviluppano all’interno della tradizione biblica ed evangelica, ma si articolano in un tempo astratto, fuori da quadri cronologici e, con la massima libertà, fanno riferimento alla tradizione codificata e scritta.
Sono, per così dire, una Bibbia e un Vangelo di tipo popolare, paralleli ai testi ufficiali, non contrapposti, ma con una loro visione originale, come se il popolo avesse scritto una storia sacra familiare, che avvicina e integra quella ufficiale, sottolineandone gli aspetti che gli strati più umili della società hanno sentito particolarmente vicini alla loro esperienza quotidiana.
Abbiamo chiamato, come in Toscana si dicono, queste storie profacole, come dire: parabole del popolo. Non hanno ancora una denominazione tecnica specifica e, tranne raccolte parziali, non hanno avuto studi particolari che l’abbiano valorizzate.
Le profacole non sono da confondere con le leggende dei Santi, le quali aspirano, a loro modo, a costituire una verità storica e si svolgono dopo i tempi della venuta di Cristo. Al contrario queste leggende si propongono come pura creazione di tipo mitico, asserendo una verità che è principalmente di ordine spirituale e morale. È la riflessione che il popolo ha fatto e conservato captando i motivi della storia della Salvezza che più ha sentito vicini, elaborandoli poi in un’analisi limpida del rapporto dell’umanità con il divino, chiara e lineare proprio perché non condizionata dalla difesa di alcun interesse stando solo dalla parte dell’uomo.
In questo avvicinamento all’universo religioso lo spirito popolare ha operato scelte sicure e precise, scegliendo le figure più vicine alla propria misura e alla propria vita: Dio Creatore, Cristo fatto Uomo, La Vergine, San Giuseppe, San Pietro, qualche Patriarca, Salomone come simbolo della giustizia, quindi la Morte, il Diavolo.
Questa materia si trova radicata nelle nostre tradizioni locali, dialettali, variata in mille modi, articolata con figure e particolari diversi. Racconti come quello de La mamma di San Pietro sono diffusi fino nell’ultimo paesucolo delle montagne italiane. Ma anche in altre tradizioni linguistiche e nazionali sono presenti apologhi simili, presentando praticamente la stessa filosofia, la stessa ossatura narrativa: Francia, Spagna, Germania, Russia.
A giudicare dalla diffusione capillare ed estesissima di certi testi, dalla parentela con i Vangeli apocrifi, quindi dalla connessione con i miti pagani, la profacola deve avere avuto una formulazione antichissima. Purtroppo si tratta di materia scarsamente promossa dalla religiosità ufficiale e, per essere diffusa tra analfabeti, assente nei testi scritti, nei manuali di devozione, nei prontuari di predicazione, nei libri di orazioni. Per questo le verifiche sono parziali e difficili. Uno dei compendi dell’agiografia popolare è costituito dalla Leggenda aurea, il leggendario dei Santi che Jacopo da Varagine, domenicano, vescovo di Genova, compose verso il 1255. Una parte consistente dei motivi, delle storie, delle leggende agiografiche alle quali si è rifatta la pittura e l’arte in genere si trova in questa raccolta.
Un posto a se occupano poche grandi riflessioni che hanno per protagonista la Morte come entità reale, personaggio che s’identifica col mistero stesso. Il tema ha molte probabilità di derivare dal paganesimo e le storie sono probabilmente molto antiche. Il cristianesimo medievale assorbì la figura spettrale della Morte, facendone una forza al servizio del Signore, che porta gli esseri umani dalle pene terrene al trono divino. Ma anche in questi panni il personaggio risultò ugualmente indigesto e l’ironia lo colpì con mille storie, detti, proverbi.
Creatura di Dio, recalcitra inizialmente al suo compito ingrato, poi si rassegna e inizia il suo triste pellegrinaggio per il mondo. È detta giusta solo perché inflessibile ed esegue senza indulgenza né parzialità la sentenza che non viene da lei, ma da molto più lontano, dagli abissi imperscrutabili della mente divina. La lettura di questi racconti dà la misura dell’altezza alla quale sia giunto questo tipo di letteratura.
Il grande tema di Cristo Pellegrino, così diffuso e documentato in Russia, è presente nella nostra tradizione popolare attraverso le profacole. Il mondo contadino si è trovato ben a suo agio con questa visione di Cristo, dalla forte, nascosta trascendenza e dalla manifesta umanità e partecipazione alla vita, ai problemi morali, pratici e quotidiani. I poveri si sono creati un’immagine di Cristo lontana da ogni compromissione con la storia, i dibattiti teorici e la gerarchia, da ogni ambiguità con il clericalismo, spogliata dalla gloria terrena, da complicazioni teologiche: il divino che, compiuta la redenzione, rimane semplicemente con gli uomini sulla terra per accompagnarli nel difficile cammino verso la terra promessa.
Con questa figura persone semplici, analfabeti, hanno pensato, dialogato, affidando lo svolgimento del tema a due parti: Cristo, che rappresenta la verità, e Pietro che è il punto di vista dell’intera umanità, rozza, materialista, egoista, opportunista, limitata, ingenua, ma animata di vero amore verso Dio, il bene e la giustizia.
Questa riflessione cristologica non si è allontanata dall’ortodossia, ma risulta labile, passibile di deformazione, quindi sospetta per chi dubita della sostanziale bontà dell’uomo, e l’autorità esercita questa diffidenza per dovere d’ufficio.
Non meraviglia dunque se il motivo non è entrato nella devozione ufficiale, anche se l’idea di questa misteriosa presenza divina, oltre che nell’episodio di Emmaus, si trova dichiarata nelle parole stesse di Gesù: «Perché dove sono due o tre, riuniti in mio nome, ci sono Io in mezzo a loro».
A riprova della presenza di questa sia pure debole corrente c’è a Firenze una chiesa dedicata proprio a Gesù Pellegrino. Si trova presso il centro della città, nell’angolo tra via degli Arazzieri e via San Gallo.
Il nome stesso testimonia il travaglio intorno a questa devozione: nata da una visione che si riferisce a questa figura, il popolo l’ha chiamata in genere la chiesa dei Pretoni, non si sa se per appartenere alla congrega dov’erano iscritti «preti grassi e rubicondi» o per ospitare preti vecchi e poveri.
La chiesa fu destinata ad ospitare la confraternita di Cristo Pellegrino e, a questo fine, fu restaurata e arricchita dagli affreschi del pittore Giovanni Balducci, detto il Cosci, che rappresentò, nei vari momenti della vicenda di Emmaus, la figura del Pellegrino. Fu consacrata dal Vescovo Alessandro dei Medici (futuro papa Leone XI, dal breve pontificato di soli 27 giorni) ponendo altare e chiesa in onore di Cristo Salvatore.
L. P.
Così formò i corpi secondo i disegni che s’era fatto: chi alto, chi basso, chi magro, chi grasso, chi bello, chi brutto.
Le teste le lasciò tutte vuote, perché il cervello andava fatto con altra pasta più fina, che si mise a impastare subito, ma ci volle parecchio per dimenarla, cuocerla, condirla.
Intanto gli uomini stavano tutti in fila ad aspettare il cervello e Domineddio, con un ramaiolo, li prendeva uno a uno, versava la pasta del cervello nel capo e chiudeva il coperchio incollandoci un po’ di stoppa per fare i capelli.
Ci vollero giorni e giorni per arrivare a contentare solo una piccola parte degli uomini.
Quando ebbe considerato quanto cervello ci voleva per ciascuno, il Signore s’accorse che n’aveva fatto poco, allora, siccome gli era rimasto parecchio pane secco, ne fece una pappa e l’aggiunse alla pasta del cervello.
Con quel miscuglio andò avanti parecchio: gli uomini vennero fuori meno furbi, ma nessuno s’accorse di niente.
Fatti meglio i conti Il Signore vide che la pasta stava per finire e la fila era ancora lunga. Allora l’allungò di nuovo col pan bagnato e fece un pappone, nel quale di roba buona ce n’era poca o punta. E nessuno ancora s’accorse di niente, né si lamentò.
Arrivato a un certo punto, la pasta era finita e dovette mettere solo midolla di pane. Furono parecchi che rimasero senza un briciolo di cervello, ma andarono via tutti contenti come se ce l’avessero.
Quando arrivò al punto che non aveva più nulla, s’accorse che parecchi s’erano stufati d’a-spettare e se n’erano andati già per il mondo alla cieca, senza punto cervello e con la testa vuota, e quelli rimasero senza nulla e furono più contenti degli altri e nessuno protestò.
Prese allora il sacchetto con i semi della coscienza e disse a quell’uomo:
Prendi questo e, con la prossima luna buona, seminalo tutto nel campo migliore che trovi. Mi raccomando: è una cosa fondamentale: se crescerà bene e vigorosa, sarete tutti felici sulla terra e non ci saranno né liti, né contese; i poveri saranno felici, i ricchi generosi, le donne oneste, gli uomini giusti… Quando la pianta avrà fatto i frutti, chiama quanti più ne trovi e distribuisci la coscienza in modo che non manchi a nessuno e tutti la possano seminare a dare ai figli dei figli, dei figli.
Va bene, Signore, disse il contadino e se ne andò.
Ora quest’uomo era un po’ così come tanti… testa n’aveva poca, giudizio meno e non di ricordava dal naso alla bocca. Portò a casa il sacchetto, lo mise da una parte e se lo dimenticò.
Il giorno dopo la moglie vide questo sacchetto, l’aprì, trovò dei semi scuri, ne prese una buona parte e ci fece una focaccia e la dette al gatto.
La luna era cattiva, dei campi da seminare non era rimasto che il peggiore e il contadino seminò una proda all’uggia dove, a suo tempo, non nacque che una piantina un po’ stenta che il villano annaffiava con cura, per salvare almeno il seme della coscienza.
Un giorno che stava zappando il terreno là intorno, rimasto sciolto, l’asino vide la pianticella tenera e, con un solo morso, se la inghiottì, ragliando poi di soddisfazione.
Così la coscienza sparì dal mondo: tutti sanno che ci dovrebbe essere, ma nessuno la trova e peggio di tutti stanno i contadini che sono ingannati da tutti, fattori, padroni, medici, avvocati che vivono senza coscienza.
In compenso ce l’hanno gli animali: il gatto scava sempre la buca e ci sotterra i suoi bisogni, le galline raspano con cura dalla sera alla mattina e l’asino non smette mai di lavorare.
Vedendo la sposa e il figlio che dormivano protetti dai rami del pino sotto le stelle, Giuseppe prese sotto la sua protezione la pianta e volle lasciare nel suo frutto l’immagine del Bambino benedicente.
Allora andava alle ruote che facevano girare il mondo e dava un po’ di grasso alle pulegge, stringeva le cinghie, dava un po’ d’olio ai mozzi e piano piano ogni cosa si aggiustava.
Quando tutto fu a posto volle vedere che succedeva tra gli uomini e, accostato l’orecchio alle nuvole, sentì che tutti piangevano e si disperavano, soffrivano, pregavano e non avevano un momento di pace e di tranquillità.
In questo modo non va bene, disse e andò alle ruote a dare una regolata.
Ma fece andare troppo svelta quella del riso e rimase quasi ferma quella del pianto, tanto che il giorno dopo, rimettendo l’orecchio alle nuvole, sentì che sulla terra tutti ridevano a crepapelle: era tutta una gioia e una festa e nessuno si dava pensiero di nulla.
Nemmeno così va bene, disse Iddio mettendosi ad armeggiare tra le pulegge.
La mattina dopo sentì che sulla terra si piangeva e si rideva, chi era contento della vita e chi no, chi benediva e chi imprecava, chi si fregava le mani e chi si strappava i capelli.
Ecco, così va bene, disse Iddio e da quel giorno non toccò più niente e il mondo continua ad andare in questo modo.
Carlo Lapucci, Le Profacole Leggendario popolare delle figure sacre, Cantagalli editore, Siena 2010, pagine 416, euro 24