Cultura & Società
Le «parole turchine»: parlare senza dire, per dire di più
Ricordo d’aver osservato una volta una mamma che stava stirando e il suo bambino, giocando sul seggiolone, le diceva:
– Mammaaa!
E lei rispondeva soltanto:
– Amoreee!
A lungo il dialogo fu solo quello. Ripensando poi allo strano scambio di parole mi accorsi che c’era poco altro da dire tra due esseri che si vogliono bene. Altre espressioni sono certo importanti, ma sono solo contorno, riempitivo, oppure servono quando bisogna nascondere un vuoto, un sentimento diverso, un intento secondario.
Si può comunicare anche articolando solo suoni: la musica ne è una dimostrazione, ma anche la voce umana spesso, esprimendosi fuori dai canoni di una lingua, può essere portatrice di una quantità di vita, di sentimento più grandi d’un messaggio coniato nel lessico, nella grammatica e nella sintassi.
Nei momenti di grande commozione, disperazione, di forte entusiasmo anche la parola torna alla sua forma primaria: Mamma… Dio mio… Madonna… Signore… si dice nello spavento, nella gioia, soffrendo, morendo, nell’esultanza; oppure la voce prende forma di anelito, lamento, grido, sospiro.
In fondo la preghiera iterativa assume questa forma e forse il significato di un termine non è la parte essenziale, valendo assai di più il tono, il suono, il modo di pronunciare, l’aspetto del volto, gli occhi. Questi particolari, che comunemente si considerano secondari, possono invece trasformare un’ingiuria in un’espressione affettuosa e viceversa. Ricorda l’antico parlare in lingue, ovvero la glossolalia, il parlare in lingue, cui accenna anche in San Paolo scrivendo ai Corinti.
Alle scaturigini del linguaggio. Sono dette parole turchine certe formule segrete o misteriose che accompagnano le magie, le operazioni di maleficio, malocchio o incantamento. Il «turchino» fa riferimento probabilmente all’Oriente, patria di meraviglie, maghi e diviene colore frequente per abiti rituali, manti di maghi, esseri come la Fata Turchina. Così le definisce il Chiappini nel Dizionario romanesco: «Parole magiche, parecchie delle quali sono rimaste fra le nostre donnicciole che le tengono segrete e le pronunziano come scongiuro o come mezzo per rendere efficaci alcuni rimedi» (cfr. Belli, I sonetti, I, 68).
Qualcuno immagina che certe formule discendano addirittura da un’affabulazione prelinguistica scivolata nel condensarsi dei suoni nei significati e arrivate fino a noi senza essere divenuti propriamente parole.
L’onomatopea ha da dire qualcosa sull’argomento e la mimica gestuale sarà un’integrazione. Il rumore prodotto dalle cose è una lingua che dice almeno: io mi chiamo così. Il vento, la pioggia, il tuono, il mare hanno i loro suoni. La parola è, nella sua prima determinazione, un rumore, ma anche ingabbiata nello schema della convenzione tende a liberarsi, a uscirne per rompere le catene del significato e della definizione, tornando puro suono che comunica senza mediazioni, cosa come che accade talvolta nella poesia.
Nelle lingue, sia al livello colto che a quello immediato popolare, abbiamo sovente queste fughe o ritorni dalla convenzione alla prima natura notturna, primordiale al suono puro e allora le parole di nuovo si rivestono di mistero recuperando la potenza evocativa o taumaturgica del suono perduto lentamente, col solidificarsi del valore nella definizione, andando a rinchiudersi nel gioco e nella funzione sociale.
La parola recupera la sua sostanza la creatività misteriosa con la quale è scaturita nel mondo, avvicinandosi nel suo minuscolo miracolo, al mistero del Verbo che si fece carne, al Fiat divino.
Le formule comunicative. Non è un’operazione da iniziati: si tratta d’un fenomeno tanto comune che non ci s’accorge d’averlo sempre sotto gli occhi. Essendo la musica cosiddetta leggera quasi tutta ormai in lingua americana, o pseudo americana, pochissimi capiscono cosa dicano o di cosa parlino i testi per cui, se uno ci fa caso, è evidente che non si ascoltano più parole, ma suoni confusi, (come del resto una volta avveniva anche nell’opera lirica).
I comici come Totò fanno un gioco fingendo di recitare una preghiera usando una sorta di latinorum con formule proverbiali, scientifiche, giuridiche del tipo: abundantis abbundandum pedibus calcantibus natura non facit saltus absit iniura verbis noli me tangere mutatis mutandis dulcis in fundo, in secula seculorum, amen.
La tradizione orale è ricchissima di composizioni di questo tipo, formule oscure che rimandano ai responsi oracolari, alle formule, agl’incantesimi dei guaritori. La fiabesca Apriti Sesamo, della fiaba d’Alì Babà, esemplifica la frase che detiene un potere segreto soprannaturale posseduto da chi la conosce e che perde chi la dimentica.
Oggi si può che riflettere su questo meccanismo pensando alle parole d’ordine delle sentinelle militari, alle impronte digitali, al Dna e alla password dei computer.
Le composizioni dette infantili. Di solito si analizzano con poca attenzione i testi che si ritengono destinati all’infanzia, nel presupposto che i bambini siano menti non ancora giunte alla capacità di comprendere. In questa letteratura si notano un’infinità di formulette, spesso quartine con versi brevi, destinate alle conte, messaggi inestricabili che si corrispondono tra i dialetti e anche tra le lingue, a cominciare dalla più famosa.
Questa richiama, per la forma e per l’uso di conta, molte altre dialettali nelle quali ancor più il linguaggio si presta a una mistificazione.
Anche la notissima Ambarabà ciccì coccò può nascondere qualcosa.
Lo studioso Brugnatelli ipotizza, pare con qualche ragione, che il primo magico verso potrebbe derivare da una formazione del latino: hanc para ab hac quidquid quodquod, traducibile ipoteticamente: ripara questa [mano] da quest’altra [che sta facendo la conta], poi l’interpretazione si perde in una ridda di congetture. Più sicura è la navigazione in quest’altro testo.
La formula si usa in un gioco che prevede un cerchio di persone col pugno chiuso levato in alto e gettato con alcune dita aperte in una specie di morra in cui la somma finale delle dita indica colui che deve uscire. Non è difficile riconoscere in queste quattro vecchie sul sofà le Parche o le Moire che filano e tagliano la vita umana, per cui non si sta parlando di cose infantili, ma di cose serie: dell’esistenza e del destino.
La letteratura. C’è dunque una circolazione, un’andata e un ritorno dal senso oscuro al senso logico del suono, dalla nascita alla maturazione del senso e qualcosa di segreto parla ora alla mente consapevole, ora all’inconscio.
Nella letteratura si nota lo stesso processo. Dante non disdegna di tentare una lingua mai udita e ci dà il celebre verso in lingua diabolica: Papé Satàn, Papé Satàn, aleppe.
Vani anche qui sono stati i tentativi di decifrazione delle parole pronunciate da Pluto in diabolico stretto (Inferno VII, 1). Lo stesso si può dire delle parole messe in bocca al gigante Nembrod (Inferno XXXI, 67): Rafel mai amech zabi et almi.
Giacomo da Lentini, della Scuola siciliana, è autore di una composizione che famosa ha questo inizio: Lo viso, e son diviso dallo viso, / eo, per avviso, credo ben visare… (Credo di vedere bene, pur essendo lontano da quel viso, con l’immaginazione il viso della mia donna).
Maestro di tali operazioni che divennero col tempo un genere, fu Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404-1448), poeta burlesco fiorentino, la cui quartina più famosa dice:
Tra le quartine più note se ne ricordano alcune.
Lo Gliommero napoletano. Lo gliommero è una composizione popolare napoletana che ha a suo modo codificato questa forma poetica. Si potrebbe pensare a un miscuglio di elementi disparati, che prendono forza proprio dalla loro eterogeneità, in cui interagiscono frasi fatte, moduli specifici d’arti e mestieri, blocchi linguistici proverbiali, citazioni, frasi celebri e simile materiale indefinibile.
Lo gliòmmero, o gliuòmmero, ebbe voga alla corte del Regno di Napoli nel XV e XVI secolo. La metafora del nome si rifà al termine latino glomus glomeris, gomitolo, e indica qualcosa di confuso, aggrovigliato che però, preso per il capo giusto, fila via liscio senza intoppi. Gli gliommeri però, come i rebus veri e gli oracoli della Pizia, quasi mai si lasciano interpretare ma, se non se ne viene a capo, vengono assunti per via inconscia.
Questo può farcelo capire l’altra forma della parola: glòmere prende un altro significato del verbo latino glomerare: «avviluppare» che ha anche senso di stringere, agglomerarsi, serrarsi di uomini e animali, esseri viventi, come i soldati quando facevano con gli scudi la testuggine, e le api, come dice Virgilio: glomeratas apes in orbem: le api agglomerate in un globo.
Glomere indica quel globo che formano le api nelle sedi invernali quando, per non fare abbassare eccessivamente la temperatura nell’ambiente, le operaie si ammassano sostenendosi quasi ferme in volo e formano un globo vivente che oltre al tepore animale emette un brusio, come di arcane voci confuse, un suono incantato della natura che quanti hanno accostato l’orecchio a un’arnia nel periodo in cui il rito si celebra, non possono dimenticare.
Nel gliommero la parola torna ad essere suono emesso dalle creature, dalle cose, dalle anime degli esseri, in un linguaggio che trapassa la ragione e la logica arrivando all’inconscio. La poesia ce ne dà una pallida immagine, ma il fenomeno si coglie negli stati di grazia quando uno si ferma ad ascoltare il suono d’una fontana, d’un ruscello, d’una cascata, la voce del vento, il cicaleccio del fuoco, la pioggia sulle foglie, il chiocciolìo notturno d’una covata di pulcini. Anche i moderni hanno tentato questa strada, da Rimbaud a Palazzeschi, tanto che si può individuare una linea di continuità costante in diverse letterature fin dal primo Trecento quando Filippo di Joinville scrisse lo gliommero latino più famoso.
Il fenomeno è persistente. Pare che la lingua dei codici non basti e si ricorra al suono originario. I fumetti che provengono dal mondo anglosassone accompagnano le varie azioni di Pippo, Paperino, Topolino con parole-suoni scritti a grosse lettere: gnam gnam (mangiare), ron ron (dormire), glu glu (bere), slurp, ronf, ciomp. Alcuni di questi suoni sono verbi e sostantivi della lingua inglese.
Può essere il presentimento della scoperta d’una nuova dimensione, il sentore vago, ma stimolante, dell’esistenza d’un linguaggio oscuro che porta messaggi d’una parte ancora ignota dell’uomo, di cui si sa poco o nulla.
Nella musica leggera si assiste al radicarsi nell’uso comune della formula disneyana: Salagadùla magicabùla bìdibi bòdibi bu. Nelle parole s’avverte una vaga magia. È il primo verso d’una canzoncina della Fata Smemorina in Cenerentola di Walt Disney mentre opera i suoi incantesimi. La formula ha colpito la fantasia ed è comunemente usata per indicare parole magiche, una formula capace di operare prodigi come le trasmutazioni della Fata.
Prisencolinensinainciusol: queste sono le parole con cui si apre la canzone omonima di Celentano (1972): è un tipo di linguaggio che continua per l’intero brano, con termini incomprensibili, si direbbe arbitrari, ma non lo sono tutti. Disse il cantautore che in opposizione a quella miriade di canzoni in voga, piene di proclami, lamenti, proteste (anche sue) voleva fare una canzone che non dicesse niente ed esprimesse «il più elevato grado di poesia corrispondente al mondo di allora e a quanto pare valido naturalmente anche per quello di oggi».
La canzone entrò nelle graduatorie italiane ed estere, si diffuse rapidamente diventando un successo. L’autore e il pubblico si erano capiti, ma cosa si erano detti ancora non lo sanno.