Opinioni & Commenti

Le mostre «evento» e la pasta dei nostri pensieri

di Umberto SantarelliUn’operazione che qualunque società deve saper compiere è quella di leggere lucidamente e di saper valutare fino in fondo il suo patrimonio culturale: si tratta, non d’un apprendimento fine a se stesso o destinato solamente ad aggiungere qualche belluria imparaticcia, ma della condizione indispensabile perché ogni civiltà riesca a conservare tutta intera la sua riconoscibilità. La dimenticanza della propria fisionomia, o la confusione delle lingue in un esperanto privo di significato, dilapiderebbero molti patrimoni preziosi senza costruire nulla in vista d’una «globalizzazione» capace di arricchire tutti senza far danno a nessuno. Tutto questo non ha nulla a che fare con l’orgoglio provinciale o coi miti velenosi di pretese «superiorità»: è solamente un modo – se non l’unico, certamente uno di quelli essenziali – perché ogni comunità conservi tutta la ricchezza della propria storia. E lo Stato ha il dovere di tutelare questi patrimoni per renderli fruibili fino in fondo e da tutti, senza però ridurli a «prodotti» da esibire nella vetrina del mercato turistico internazionale.

Le mostre d’arte proprio a questo dovrebbero servire: a trasformare in pagine facilmente leggibili anche da chi non è «addetto ai lavori» molti capolavori conservati in musei, chiese e collezioni private, rimettendo insieme – anche se per poche settimane – tanti oggetti preziosi che, nati insieme e in congiunture storiche particolarmente felici, son finiti poi sparpagliati lontano per via di mille vicende, perdendo così una parte non secondaria dei loro originari significati. E il successo vero di queste iniziative bisognerebbe misurarlo in termini, non di folle richiamate da mezzo mondo per sfilare ordinatamente lungo un itinerario rigorosamente prefissato, ma di persone messe finalmente in grado di riconoscere e d’apprezzare tutte le loro radici.

La Toscana potrebb’essere una sede singolarmente adatta per esperimenti di questa specie: i quali, però, per conservare intatto tutto il loro possibile pregio, dovrebbero esser messi al sicuro da ogni indebita ibridazione. Due eventi, uno concluso da qualche giorno e l’altro appena aperto, possono essere esempi perfettamente calzanti. La mostra senese su Duccio di Bonisegna e quella fiorentina sul Botticelli e Filippino Lippi sembrano nate apposta per facilitare la lettura di due momenti fondamentali della nostra civiltà che son diventati anche passaggi significativi nella vicenda della cultura universale.

L’importante è che il fragore pubblicitario del grande evento messo in vendita nel mercato «globalizzato» non frastorni la testa a folle di avventori distratti; che le esigenze (comprensibili) del mercato non rendano insignificanti lezioni così alte. Perché quel che alla fine conterà sarà di sapere, non quanti potranno dire d’esserci stati anche loro, ma se qualcuno, guardando quei capolavori, sarà riuscito a intuire un po’ meglio di che pasta son fatti i suoi pensieri.

Botticelli e Filippino, maestro e allievo insieme a Palazzo