Cultura & Società
Le eterne rivalità dei campanilismi
di Carlo Lapucci
Una delle leggi più importanti della natura è la polarità: un sistema duale che si forma naturalmente e si ritrova nei pianeti, nelle forze, nelle formazioni sociali, nella psicologia come in molte altre realtà. Nella coppia umana generalmente a un padre severo si contrappone una mamma permissiva: se il padre è permissivo la mamma assume forme di severità e viceversa. La stessa cosa accade nelle formazioni sociali in cui i membri si strutturano praticamente in due grandi formazioni: patrizi e plebei, ottimati e popolani, guelfi e ghibellini, anarchici e codini, cattolici e protestanti, conservatori e progressisti e infinite altre polarità.
Questa divisione quasi per dicotomia si ramifica in altre contrapposizioni meno forti, meno evidenti, ma determinanti e condizionanti, che si formano su ogni problema: interventisti e neutralisti, innocentisti e colpevolisti, pro e contro la pena di morte, l’ergastolo, la guerra. L’Italia ne ha a dovizia di queste divisioni, anzi pare che tutte le scuse siano buone per crearne sempre di nuove, spesso sostenendo tesi, teorie, fatti di cui si ha scarsa conoscenza.
C’è una storia che nacque nei secoli in cui il mondo della letteratura era contrapposto tra sostenitori del primato dell’Ariosto e coloro che preferivano il Tasso. Due tifosi dell’uno e dell’altro si sfidarono a duello e quando il campione del Tasso fu trafitto, morendo confessò di non aver mai letto neppure un verso né dell’uno, né dell’altro.
Si ricordano ancora i sostenitori di Bruneri e Cannella, di Coppi e Bartali, i contrasti tra città e campagna, si fanno ancora, in mancanza di meglio, partite a calcio tra scapoli e ammogliati. La Toscana calcisticamente è segnata dal contrasto Juve-Fiorentina. Soprattutto i territori vicini a Firenze abbondano di juventini detti con gentile eufemismo gobbi, e così nelle città tradizionalmente avverse al capoluogo della Toscana.
Si spera di star parlando di cose passate o che stanno passando, anche se si riscontra ancora la loro esistenza certo meno grave e patologica che nel passato quanto arrivavano i guelfi e spianavano la città costruita dai ghibellini, tornavano i ghibellini e spianavano la città costruita dai guelfi. Persiste comunque sempre più superficialmente la tentazione della demonizzazione, ossia nell’individuare nella parte avversa l’elemento del tutto negativo, da estirpare, annientare come il male incarnato.
D’altra parte tanti venti hanno soffiato sui fuochi delle discordie nazionali, tanti interessi esterni anche oggi spingono, fomentano le contrapposizioni con fini oscuri e meno oscuri: l’Italia è stata un teatro, meglio dire un ring, dove si sono scontrati decine e decine di popoli che hanno seguito la regola del divide et impera, tanto che nacque un proverbio molto diffuso nei dialetti italiani: Franza o Spagna, basta che se magna, che a me, più che qualunquismo pare segno di una stanchezza di tanti inutili schieramenti e lotte sterili. Anzi, monarchi, proconsoli, governatori stranieri, viceré, hanno forse acuito lo spirito del contrasto, mentre la componente religiosa, che spesso si è inserita nel gioco, ha favorito la demonizzazione dell’avversario, radicando talvolta le contrapposizioni.
Del resto l’esempio ci viene da uno dei padri della patria. In un passo famoso del Purgatorio (XXV, 40-54), descrivendo il corso dell’Arno, Dante trova il modo di chiamare porci i casentinesi (par che Circe li avesse in pastura), botoli ringhiosi gli aretini (Botoli trova poi, venendo giuso, / ringhiosi più che non chiede lor possa), lupi i fiorentini (tanto più trova di can farsi lupi / la maledetta e sventurata fossa) e volpi i pisani (trova le volpi sì piene di froda). Poi qua e là nel nostro poema nazionale ce n’è per tutti tanto che ci vuole un gran coraggio a fare l’Europa.
Ruggini ce ne sono tante che riaffiorano qua e là nei detti come: A Lucca ti vidi e a Pisa ti conobbi, Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio e altre simili gentilezze che sopravvivono anche tra centri più piccoli. Un vecchio malanimo ormai sopito è quello che contrappose Empoli a Samminiato.
Fino al 1860 il giorno del Corpus Domini veniva fatto volare a Empoli un somaro, dalla cima del campanile della Collegiata fino in piazza. L’usanza è decaduta, ma le ali del ciuco, che scendeva lungo una corda tesa, sono ancora visibili al museo della Collegiata, appese al soffitto della loggia. L’usanza si vuole che sia nata come celebrazione della vittoria degli empolesi sulla vicina Samminiato. I samminiatesi avevano detto che i nemici avrebbero preso la città quando si fossero visti gli asini volare. La storia ebbe il suo cantore in Ippolito Nieri che scrisse il poema giocoso: La presa di Saminiato, i versi finali (XII, 120) suonano:
Le leggende enfatizzano anche fatti irrilevanti per irridere l’avversario e sui Cellesi corre la storia che durante una processione delle Rogazioni i fedeli di Celle percorrevano una viottola campestre cantando processionalmente. A un tratto schizza davanti al sacrestano che stava in testa al corteo con la croce, una bella lepre che prima si ferma a guardare e poi sparisce. Non molto dopo la lepre sbucò di nuovo e il crucifero, che era un accanito cacciatore, non resse più e istintivamente le tirò la croce mancando però il colpo. Del fatto si servirono i sancascianesi per beffare i cellesi e composero anche un blasone popolare ancora vivo: Perfido cellese tirò il Cristo alla lepre e non la prese.
Lo scarso affiatamento tra i popoli dei due paesi, distanti appena cinque chilometri, si è acuito allorché Celle è stato inserito come parte del comune di San Casciano, cosa che ha aggiunto una specie di dipendenza con dissapori amministrativi. Fatto è che il matrimonio tra Lauretta (di San Casciano) e Mauro (di Celle) è stato salutato come un evento che non si ricordava a memoria d’uomo. È avvenuto il 18 novembre 1973 in campo neutro, a Figline.
Tra La Lastra e Signa le cose si vanno appianando, ma ci sono stati malintesi. Signa è più grande e la differenza si sentiva di più in passato. Posta a destra dell’Arno aveva collegamenti facili con Campi, Prato Firenze; disponeva della stazione ferroviaria, aveva campo sportivo, teatro, fabbriche e una squadra di calcio: Le Signe.
La Lastra, più piccola, a sinistra dell’Arno ebbe una posizione favorevole fino agli anni Trenta per il passaggio della strada Livornese, poi soppiantata da altre linee di comunicazione. Aveva un’economia agricola ed ebbe una squadra di calcio, la Lastrense, solo nel dopoguerra. Le baruffe si raccontano ancora nelle veglie.
Spulciando qua e là di vecchie ruggini paesane se ne trovano a migliaia: Sinalunga ha come sua bestia nera Bettolle dove vogliono avere il proprio comune. Colle Val d’Elsa un tempo filo senese e Poggibonsi una volta filo fiorentina sfogano l’amaro nelle rivalità calcistiche con manifestazioni di grande calore. Montepulciano e Acquaviva si fanno dispetti come il recente ratto del Grifo, simbolo della città. Montevarchi San Giovanni hanno dovuto trovare un difficile accordo sulla sistemazione dell’ospedale.
Una storia esemplare è quella di Lucignano di Montespertoli e la vicina San Pancrazio che ha sempre avuto maggiore vita e importanza: la chiesa disponeva di un fonte battesimale, che in passato le piccole chiese non avevano, e anche d’un campanile con ben quattro campane.
Lucignano, più piccola, aveva la chiesa con un campanile a vela, basso, con soltanto tre campane. L’arrivo di Don Visibelli pose fine a questa specie di sudditanza. Fece edificare un campanile di 30 metri, in cemento armato e rivestito di pietra con ben quattro campane, per di più intonate: era a dire il vero sproporzionato alle necessità, ma il suo suono si sente ancora a grande distanza, più lontano di quello di San Pancrazio. Nel 1944 la chiesa fu dotata anche di un fonte battesimale e la vecchia ruggine aumentò con le solite manifestazioni di simpatia fino ad esplodere negli anni del dopoguerra in una memorabile baruffa furibonda innestata da uno sconfinamento della processione del Corpus Domini. Altri tempi.
Quando si ha voglia di litigare tutte le scuse son buone. San Piero in Bossolo e San Romolo a Tignano, che non si sono amate mai di grande amore, presero come pretesto l’uso che venne negli anni Cinquanta di portare in giro processionalmente la Madonna Pellegrina che passava di parrocchia in parrocchia sostandovi per qualche tempo. Il pievano, tra l’altro mio lontano parente, aveva nella sua chiesa due splendide e antiche immagini: la Madonna del Pa-trocinio e l’altra, straordinaria, La Madonna di San Pietro in Bossolo attribuita a Coppo Marcovaldo: non vedeva che bisogno ci fosse di un’altra immagine, ma aveva fatto il necessario.
La statua passava da una parrocchia all’altra con due processioni solenni che s’incontravano al confine, ma su questa cerimonia ci furono delle discussioni per il punto nel quale doveva avvenire l’incontro. Questo naturalmente riguardava l’esatta linea di confine delle due parrocchie e non doveva essere né un centimetro di più, né uno di meno. Il percorso del pievano prevedeva un punto, il percorso della chiesa vicina ne prevedeva un altro. Si arrivò alla cerimonia, ma nessuno voleva muoversi d’un centimetro dalla sua posizione i punti restavano distanti. Ci fu un’ultima discussione, qualche baruffa e alla fine il pievano, che era grande come un armadio, tuonò sopra la folla parole rimaste celebri:
– Insomma il confine è questo, il punto d’incontro è questo qua e se mi fate andare in bestia prendo a calci nel… voi e…
Si spostarono le teste di ponte e almeno per quella volta tutto andò bene.