Opinioni & Commenti
Le «democrazie illiberali» che minano la democrazia
Pochi giorni fa il parlamento europeo ha chiesto sanzioni per l’Ungheria di Viktor Orban. Il leader ungherese è accusato di attentare ai diritti civili nel suo paese perché imprigiona i migranti, riduce il diritto di sciopero, restringe l’autonomia delle università, limita l’indipendenza della magistratura. E non lo fa per una rozza negligenza, ma per una proclamata convinzione. Quattro anni fa il 26 luglio 2014 Orban ha pronunciato con grande franchezza una frase quasi incredibile: «Il nuovo stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno stato illiberale». E a conferma che il suo non era un lapsus ha aggiunto: «Uno stato non liberale».
Eppure Orban nonostante la sua eresia rispetto al liberalismo classico dell’Europa non è un isolato: ha di fatto nell’Ue il sostegno della Polonia di Jeroslaw Kaczynski, della Repubblica Ceca di Milos Zemam, della Slovenia di Janez Janse e in genere dei cosiddetti paesi di Visigrad per non parlare dei vari Salvini sparsi un po’ dovunque nel vecchio continente.
Orban ha anche tutta la simpatia pubblicamente dichiarata di Trump. E soprattutto si inserisce in un quadro mondiale in cui la democrazia non sembra avere più tutto lo smalto e l’appeal di una volta. Ricapitoliamo i capitoli precedenti per fare capire il nocciolo di un grande e sempre più minaccioso fenomeno.
All’indomani della caduta del muro di Berlino in un libro celebre (La fine della storia) il politologo americano Francis Fukuyama aveva previsto che dopo il crollo del comunismo nel futuro del mondo non ci sarebbe stata altro che democrazia, il regime vincente in cui come in un unico mare dovevano alla fine sfociare tutti i fiumi storia. La cosa fu quasi universalmente creduta. Qualcuno pensò addirittura di fare, come diceva Marx, la «levatrice della storia» anticipando con la violenza il parto della democrazia in Afghanistan e in Iraq e poi nei paesi islamici con le «primavere arabe».
È inutile ricordare che in tutti questi casi sono nati solo aborti. Con la globalizzazione e il trionfo del libero mercato mondiale che tenne dietro al tramonto del comunismo si pensò anche che, aprendo ai mercati i paesi ancora senza libertà, sarebbe arrivata la democrazia come risultato inevitabile del miglioramento del loro tenore di vita tanto si riteneva indiscutibile il nesso benessere-libertà. Nemmeno questa profezia è stata azzeccata. In Cina ottocentocinquanta milioni di persone sono uscite dalla povertà, ma il regime continua a gettare in carcere i suoi oppositori anche quando si tratta di premi Nobel. Sempre Fukuyama ricordava che da almeno duecento anni la democrazia era sinonimo di ricchezza e di benessere. Per questo era stata invidiata e perfino imitata anche da chi non amava troppo la libertà, ma considerava la democrazia un prezzo da pagare solo per mangiare un po’ di più. Ma dopo la grande crisi che ha colpito il mondo occidentale negli ultimi dieci anni anche il rapporto democrazia-progresso non appare più così ovvio e sicuro.
La Cina cresce al ritmo del sette per cento all’anno mentre l’Occidente deve fare il fiato grosso per raggiungere un più misero due per cento. Settanta anni fa quando Mao divenne padrone della Cina un cinese era più povero di un povero. Aveva metà del reddito di un africano e un ventesimo del reddito di un americano. Oggi il reddito di un cinese è un quarto del reddito di un cittadino yankee e la Cina è ormai la prima potenza economica mondiale dopo avere tolto agli Usa un primato assoluto che durava dal 1872.
E l’esempio del successo senza libertà è purtroppo contagioso. L’Asia non va più a scuola dal lontano Occidente, ma dalla vicina Cina. La Birmania dove due anni fa è andata al potere Aung San Sun Ki, quella che doveva essere la «dea della democrazia», è diventata più antidemocratica della vecchia Birmania governata dai militari. Nelle Filippine dove trenta anni fa ebbe una eco mondiale la cacciata del dittatore Marcos oggi imperversa Rodrigo Duterte, un presidente che ha massacrato diecimila persone con il pretesto della lotta alla droga. La Thailandia, che finalmente venti anni fa si era data un parlamento, da quattro anni è di nuovo governata da una giunta militare.
Anche la Russia postsovietica ha invertito la sua marcia che si dava per scontata verso la democrazia. Putin rinazionalizza di nuovo, imprigiona o elimina oppositori testardi e giornalisti scomodi. È una «democratura» incurante dei diritti civili, ma che da venti anni si regge su plebisciti intorno allo stesso nome con l’ottanta per cento di consensi interni e anche all’esterno appare come il regime che ha risollevato economicamente il paese dal disastro del primo periodo postcomunista.
Peggio ancora la Turchia di Erdogan, una volta considerata quasi democratica, licenzia migliaia fra militari, giudici e professori universitari considerati nemici del governo, arresta un duecento giornalisti e una decina di deputati e ormai governa per decreti presidenziali facendo a meno del parlamento.
Ma perfino nel mondo occidentale la «democrazia illiberale» basata sulla investitura popolare e sulla delegittimazione dei principi costituzionali e dei corpi intermedi a cominciare da quello della magistratura ha già echi profondi. È una democrazia in fondo praticata anche se non teorizzata da un Trump la cui principale battaglia interna è il conflitto quotidiano con i giudici. E il richiamo a questa sorta di «democrazia illiberale», che si appella alla volontà popolare anche contro la legge, è drammatico e plateale in Brasile dove l’ex-presidente Lula in carcere per una condanna a dieci anni per corruzione vuole presentarsi alle elezioni in cui tutti i sondaggi lo danno sicuramente vincente con la solidarietà di almeno la metà di tutti i governi dell’America Latina e di quasi tutta la sinistra europea, da Hollande a Zapatero a D’Alema.
In questo clima pensare di difendere la nostra democrazia di stampo occidentale con le prediche contro un generico populismo non serve a molto. Meglio sarebbe riconoscere la ammaccature che i nostri sistemi democratici hanno subito soprattutto negli ultimi tempi, macchiandone le immagine e diminuendone la credibilità, e cercare di ripararle prima che sia troppo tardi. Le democrazie classiche del Duemila si sono dimostrate deboli nell’affrontare la grande crisi economica, hanno dimenticato spesso il dovere della solidarietà verso i più deboli che è obbligatorio in caso di crisi, hanno lasciato crescere fortemente al loro interno le disuguaglianze. Come ha detto brutalmente e coraggiosamente Warren Barret, il secondo uomo più ricco del mondo: «Negli ultimi venti anni c’è stata una lotta di classe e la nostra classe l’ha vinta». Soprattutto la nostra democrazia occidentale è apparsa spesso subordinata e soccombente rispetto alla potenza del grande capitale finanziario e delle gigantesche multinazionali che ormai in fatto di economia sembrano decidere più dei governi. A loro non solo non siamo capaci di fare pagare le tasse come all’ultimo povero diavolo, ma per loro talvolta sembra addirittura sospeso il cardine della democrazia liberale che è l’uguaglianza di tutti davanti alla legge.
Come è arcinoto il crack della banca Lehmann Brothers e il crollo del sistema bancario fondato sulla semitruffa dei famigerati «derivati» dieci anni fa diede inizio alla grande crisi mondiale che ha creato decine di milioni di poveri e gettato in depressione l’economia di interi paesi. Eppure ha scritto a questo proposito il giornalista e scrittore John Lanchester: «Non sono riusciti a portare avanti nessuna azione giudiziaria contro i finanzieri d’alto bordo. In occasione dello scandalo delle Casse di Risparmio degli anni 1980 erano state processate millesettecento persone».