Opinioni & Commenti
Le contraddizioni della guerra
È stato spazzato un santuario del terrorismo, ma se il terrorismo è un’organizzazione più che un luogo la sua rete resta ancora da neutralizzare con tutti gli strumenti che sono al di fuori e al di là della guerra.
Nel corso di una guerra in cui si è cercato un po’ sofisticamente di distinguere un regime da un paese come se esistesse un improbabile stato di Talebania, si è tolto il coperchio, ma si è anche messo ancora più a nudo, il dramma dell’Afghanistan di sempre, o almeno di quell’Afghanistan che da oltre venti anni a questa parte non ha conosciuto pace.
Oltre l’Afghanistan la lotta al terrorismo ha bisogno di mezzi meno sanguinosi e di obiettivi meno circostanziati per essere portati avanti. Eppure proprio nella sua ampiezza questo compito contiene anche il pericolo arbitrario della sua vaghezza. Dopo Kabul ora vengono ventilate altre operazioni, ad esempio, contro l’Irak accusata di essere un produttore di armi di sterminio oltre che una dittatura. Come se fosse semplicisticamente possibile muovere guerra contro la ventina di stati che attualmente possiedono probabilmente armi chimiche e contro il centinaio che sono forse dotate di armi batteriologiche oltre che contro tutti quegli stati e sono purtroppo la maggioranza del pianeta che non sono democratici.
Già la guerra in Afghanistan ha messo a dura prova l’assenso sornione e la tolleranza sempre più impaziente anche dei governi dei paesi musulmani moderati. A livello di opinione pubblica del mondo islamico, se per opinione pubblica si intendono le manifestazioni di massa, le prese di posizione delle autorità religiose e degli stessi giornali governativi, la guerra ha trovato un opposizione pressoché generalizzata che va dal Marocco all’Indonesia.
Tutto ciò non può che aggravare anche la tensione fra le diverse confessioni religiose. Da tempo sono aperti conflitti fra musulmani e cristiani in Nigeria, nel Sudan, nel Pakistan, in Arabia Saudita, in Indonesia, perfino in un paese a stragrande maggioranza cattolica come le Filippine.
In qualche modo, seppure con notevoli forzature e semplificazioni solo da una certa angolatura, i conflitti degli ultimi anni possono anche essere letti come conflitti religiosi. Come scontro fra ortodossi e musulmani in Bosnia e nel Kossovo, come sfida fra musulmani e cristiani nel terrorismo internazionale e nella sua controreazione.
Più di un intellettuale, e fra questi, per esempio, il premio Nobel per la letteratura Josè Saramago, ha ripreso nelle ultime testimonianze il tema illuminista delle religioni come causa della guerra e ne ha fatto pretesto per esaltare anche per questo il proprio dichiarato ateismo.
È una minaccia grave non solo per il dialogo interreligioso, ma per la difesa della autenticità della religione in quanto tale, dell’esperienza religiosa qualunque essa sia. Ben venga dunque la proposta del Papa per un nuovo incontro ad Assisi fra le grandi religioni. Per dire che la guerra non può essere mai fatta in nome di Dio. Per reimparare a pregare, nello stesso tempo e seppure in uno spazio diverso, lo stesso Dio.