Opinioni & Commenti

Le condizioni per una ripresa del dialogo tra gli Stati Uniti e l’Europa

di Romanello CantiniChi l’ha detto che per portare la democrazia bisogna fare la guerra? Quando pensiamo così siamo come abbacinati dalla esplosione della seconda guerra mondiale allorché per abbattere nazismo e fascismo si dovette affrontare un conflitto spaventoso e non riusciamo a vedere oltre.Eppure le esperienze più recenti dimostrano che la democrazia riportata con le armi è una eccezione e non la regola. La Spagna tornò pacificamente alla democrazia con la morte di Franco (1975). Pinochet fu costretto a dimettersi in seguito ad un referendum (1989) e nello stesso anno tutte le dittature comuniste crollarono in Europa senza quasi che fosse sparato un colpo.

Marcos nelle Filippine (1986) e Suharto in Indonesia (1998) sono stati cacciati dal potere solo per mezzo di grandi manifestazioni di piazza non molto diverse da quelle che più di recente hanno riportato la legalità democratica in Georgia e in Ucraina. I colonnelli greci e i generali argentini dovettero abbandonare il potere in seguito ad una guerra perduta, ma il conflitto per Cipro (1974) o per le Malvinas (1982) era stato voluto e non subìto dalle due dittature. Solo nel caso della Serbia e dell’Iraq si può dire che la guerra ha aperto un varco verso una democrazia ancora tutta da verificare e da consolidare. Ma nella stragrande maggioranza dei casi la non violenza e non la violenza è stata finora la levatrice delle democrazie che sono nate negli ultimi cinquant’anni.

È anche vero che finora sotto questo aspetto i paesi arabi soggetti quasi tutti a regimi autoritari incrollabili hanno rappresentato una eccezione particolare che ha resistito ad ogni cambiamento. Ma ora, dopo le elezioni in Palestina del 9 gennaio scorso prima ancora delle sorprendenti elezioni in Iraq del 30 gennaio, qualche cosa comincia a scricchiolare anche sotto la crosta di un panorama politico monotono e pietrificato da sempre. Ora anche nel Libano – l’unico paese arabo con una forte presenza cristiana e che fino alla guerra civile di trenta anni fa rappresentò un’oasi di democrazia nel Medio Oriente – la gente scende in piazza per invocare la libertà al di fuori della pesante occupazione siriana. Perfino in Egitto Mubarak promette per il prossimo settembre elezioni con più candidati mentre finora ha solo promosso referendum su se stesso.

Se si tiene bene conto di questi dati di fatto una ripresa del dialogo fra Stati Uniti ed Europa appena abbozzato con la visita di Bush a Bruxelles è possibile anche nel quadro della attuale insistenza del presidente americano nel pretendere di diffondere la democrazia nel mondo. Si tratta di intendersi sui tempi e sui modi. Il taglio cesareo non è in genere il modo migliore per far proliferare alla svelta e ovunque democrazie. Il costo in termini di sangue difficilmente giustifica la brutalità dell’operazione e l’anticipo dei tempi anche se la prudenza sui costi e sugli sbocchi deve fare i conti con il tarlo terribile della coscienza di fronte alla violazione dei diritti umani. Forse il mondo occidentale sarebbe meno orgoglioso del suo primato in fatto di democrazia se ricordasse quanto anch’esso è stato duro ad impararla impiegando quattro secoli per essere promosso dall’assolutismo al liberalismo e poi dal liberalismo alla democrazia.

È evidente inoltre che esistono mezzi politici altrettanto efficaci nel promuovere processi di liberazione. Il superamento del conflitto israeliano palestinese è, ad esempio, fondamentale per sottrarre ai regimi arabi quel pretesto di guerra permanente con cui giustificano ogni restrizione di libertà e soffocano ogni dissenso interno.Non è inoltre forse solo un caso che la democrazia è in genere un distintivo dei paesi benedetti anche dal benessere. E le dittature non sono malattie infantili che una volta passate non si riaffacciano più. L’America Latina era più democratica nell’Ottocento che nel Novecento.

L’Europa degli anni Venti del secolo scorso era più democratica dell’Europa degli anni Trenta segnata dalla crisi economica e da tanti regimi fascisti o pseudofascisti. Il che ci suggerisce fra l’altro che anche la lotta contro la povertà e contro l’ingiustizia a livello internazionale, insieme alla solidarietà attiva verso le popolazioni che lottano per la loro libertà, costituisce un altro capitolo con cui si contribuisce non solo a diffondere ma anche a difendere la democrazia.