Cultura & Società
Le bellezze di Toscana luoghi d’ozio fin dai tempi dei Romani
di Elena Giannarelli
Loro, gli antichi nostri, i Romani, in vacanza ci andavano, eccome. In principio la chiamarono otium, «tempo libero, riposo», contrapposto a negotium, «attività, «non ozio». Gente di alto rango, politici, cavalieri, senatori, si spostavano con i loro schiavi nelle villae, le case di campagna, al centro di tenute più o meno vaste, con fattorie, nei dintorni ridenti di Roma, nelle terre sempre piene di sole della Campania. Lì soggiornavano in splendide residenze, piene di marmi pregiati, mosaici, piscine. Le acque erano elemento essenziale e spesso si trattava di acque termali, attenti com’erano alla salute del corpo. Chi era un «intellettuale» approfittava di questi periodi per scrivere, studiare, discutere con amici di questioni politiche e filosofiche, per abbandonarsi a giochi letterari e a colti divertimenti.
Cicerone andava nella sua vasta proprietà di Tusculo e da questi suoi ozi nacquero le Tusculanae disputationes, un’opera dedicata a questioni etiche, a come affrontare il timore della morte e del dolore, a come resistere alle passioni. E fu tra i primi ad usare, nel senso di villeggiare, il verbo rusticari, «vivere in campagna», «darsi alla vita rustica», assumere i ritmi, le abitudini semplici di chi abitava fra la natura.
I filosofi come Seneca avvertivano saggiamente che per essere felici non bastava cambiare luogo: i propri guai, le insoddisfazioni, le insicurezze, i problemi, ciascuno se li porta dentro e lo seguono dovunque vada. Tuttavia gli stessi pensatori non disdegnavano di ritirarsi lontano dalla caotica (anche allora) vita di città, e di dedicare periodi più o meno lunghi a riflettere, meditare, comporre. L’idea di villeggiatura ha quindi origini alte.
Poi, in epoca imperiale, nacquero le stazioni alla moda.
Alcune di queste località rimangono ancora oggi e sono mète di sogno. Un esempio è Capri, l’isola del golfo di Napoli, dalle coste alte e frastagliate, con i celebri faraglioni ed un clima di straordinaria mitezza. Pare fosse abitata già durante il Paleolitico, ma divenne luogo di otia di rango altissimo ai tempi di Tiberio, che non si contentò di costruirvi una elegantissima dimora, ma pare ne abbia fatte edificare addirittura dodici, per cambiare panorama ed avere sempre davanti agli occhi angoli incantevoli e diversi. Ognuna di esse era dedicata ad una divinità dell’Olimpo.
Altre località invece non esistono più. La Montecarlo dei secoli I-IV d.C. si chiamava Baia; affacciata sul Golfo di Pozzuoli, era un posto splendido per bellezze naturali, con costruzioni lussuosissime nascoste fra il verde, acque termali, possibilità di svaghi di ogni genere. Poeti e gran signori, matrone coperte di gioielli, si abbandonavano a piaceri sfrenati in ambienti di grande raffinatezza. Il poeta Marziale scrive in un suo pungente epigramma che una signora romana vi giunse che pareva una Penelope piena di pudore e ne ripartì simile ad Elena di Troia. Divenne il palcoscenico ideale per esibire il potere raggiunto ed andarvi era quasi un dovere sociale, per chi contava. Questo luogo simbolo di grandezza fu oggetto di rifiuto da parte di alcune cristiane di altissimo rango che nel IV secolo respinsero la vacanza a Baia insieme ad altre abitudini radicate nelle famiglie senatorie più celebri. Ciò provocò grande scandalo nell’alta società di allora, come testimonia Gerolamo, che di quelle dame, Paola e Melania, fu il maestro spirituale nella Roma del 384 d.C., e che scrive nella Lettera 45,4: «Se anch’esse frequentassero la spiaggia di Baia, scegliessero accuratamente i profumi, se sapessero approfittare della loro ricchezza e della loro vedovanza comune elementi favorevoli per una vita lussuosa e libertina, allora sì, sarebbero chiamate signore e sante. Ma è in sacco e cenere che esse vogliono apparire avvenenti».
«Rinunciare a Baia» significa rinunciare a tutto un modo di vivere, abbandonare il saeculum e fare una scelta radicalmente opposta: quella della semplicità, della carità e dei valori cristiani.
D’altronde, luoghi per noi adesso sinonimi di vacanza, come le isole dell’arcipelago toscano, agli occhi di uno degli ultimi pagani del V secolo, il poeta Rutilio Namaziano, si coloravano di tinte fosche. Nel 415 o 417 durante la navigazione che da Ostia lo riportava in Gallia, egli avvista le coste di Capraia; il suo animo, già esacerbato dalla consapevolezza della fine della grandezza romana, si lascia andare ad una invettiva contro i nemici di quel passato glorioso, i cristiani. Quelle coste sono abitate da monaci, uomini che fuggono la luce, se ne stanno nascosti, capaci di vivere da infelici per paura dell’infelicità. Pensieri ancora peggiori gli suscita la Gorgona, perché lì è andato a seppellirsi, con un funerale da vivo, un giovane nobile, che avrebbe potuto avere un avvenire brillante e che ha scelto il monachesimo. Ai monaci succede peggio che alle vittime di Circe: non si trasformano nei corpi, ma nelle anime. Una grande sensibilità a modo suo egli dimostra in alcune pagine dello stesso poemetto dedicato a «Il suo ritorno». Diventa il cantore del rimpianto sulle rovine di Cosa e soprattutto di Populonia, l’antica città etrusca, un tempo ricchissima, poi decaduta e quasi scomparsa.
Forse un poco più complicato appare il discorso per l’Elba, descritta Diodoro Siculo, storico greco del I secolo a.C.: «In faccia alla città di Populonia, nel mar Tirreno è situata l’isola di Aethalia, così chiamata per la quantità di fuliggine che vi si produce….Vi si trova molto minerale di ferro, che si scava per ricavarne il metallo».
L’isola della metallurgia, abitata da un’antica popolazione, gli Ilvates, pastori sul monte Capanne, mentre le coste vedevano le scorribande di Fenici, Greci ed Etruschi, è al centro di un patrimonio leggendario che traveste il succedersi di vari colonizzatori. Così sono gli Argonauti in persona a predisporvi un ottimo porto per le navi, chiamandolo Argon, come la loro nave : in questo modo Diodoro Siculo e Strabone ci tramandano l’origine greca di Portoferraio. Dal canto suo Virgilio rievoca addirittura la partecipazione di guerrieri dell’Elba alla guerra di Troia, in aiuto di Priamo e poi a sostegno di Ascanio, per inserirla a pieno titolo nel mondo di Roma. Territorio estrattivo con gli Etruschi, proprio con i Romani l’isola cambiò pelle: base per combattere i pirati, punto focale dei commerci marittimi, se ne potenziarono i porti e cominciarono a sorgere le prime ville di ricchi senatori, come quella delle Grotte, che domina il golfo di Portoferraio. Il primo villeggiante dell’isola del Giglio pare essere stato Lucio Domizio, con una lussuosa dimora affacciata su quella che sarà la Cala del Saraceno mentre a Giannutri furono i patrizi Enobarbi a costruire in epoca imperiale una residenza da sogno.
Mare, sole, acque, panorami mozzafiato, campagne rigogliose: questi gli scenari della villeggiatura degli antichi. La montagna resta esclusa: locus horridus, difficilmente raggiungibile, sarà avvicinata in epoca tardoantica e medievale come luogo di ascesi da parte di monaci ed eremiti, quando le isole non saranno più sicure ed il concetto di «deserto» troverà il suo equivalente in selve e solitudini rocciose. Solo molto più tardi, a partire dal Settecento e dall’Ottocento, con l’apertura delle strade, Abetone e Vallombrosa, Amiata e Apuane diventeranno mèta di escursioni e soggiorno.
Ma Camaldoli e La Verna, Calomini e San Pellegrino in Alpe vedranno sempre, soprattutto nella stagione estiva, salire i pellegrini, pochi in origine, poi sempre più numerosi. Dal IV secolo in poi il pellegrinaggio è una forma di devozione che spinge i credenti sulle strade del mondo per pregare. Ce lo dice chiaramente la celebre Egeria, che si recò al Sinai e in Terra Santa proprio per questo scopo. E si può anche affacciare l’ipotesi dell’esistenza di una sorta di Grand Tour, un viaggio di istruzione per i Romani più colti ed abbienti, che includeva Napoli, Capri, Atene, l’Asia Minore, con i resti di Troia, quindi l’Egitto, Alessandria e le colonie del Nord Africa. Il tutto della durata dai due ai cinque anni, visti i mezzi di trasporto dell’epoca.
Le idee degli antichi continueranno a determinare il concetto di ferie: nei castelli, nelle ville che dall’epoca rinascimentale sorgeranno nei pressi delle grandi città, oltre alle attività di caccia e alla agricoltura si svolgerà una ricchissima vita culturale; alle terme si continuerà a dare grande attenzione ed anche in questo caso concerti e conversari si affiancheranno a passeggio elegante, a bagni e «brindisi» con acque dai vari effetti.
Tempo di riposo, ma da utilizzare anche per la crescita dello spirito. In questa prospettiva molti scrittori cristiani antichi e i Padri della Chiesa ci aiutano a leggere le «vacanze».
Nel IV secolo, Agostino con la madre, il figlio, gli amici visse un lungo periodo di studio e di ricerca interiore a Cassiciaco, nella verde Brianza, come ci testimoniano le opere del santo; i letterati cristiani di Gallia, come Paolino poi vescovo di Nola, o Sulpicio Severeo, l’autore della Vita di Martino, si ritrovavano a parlare di fede e di Cristo, a esaltare la figura del santo di Tours in splendide ville nella campagna, in compagnia di amici, in una condivisione di esperienze che accomunavano cultura e bisogno religioso.
E sulla soglia del nostro periodo di riposo, ecco pronta per accompagnarci una frase proprio di Agostino, che commenta Salmo 45,11 «State nella quiete e saprete che io sono il Signore». Il testo latino usa otium per «quiete» ed il santo afferma: «non nell’ozio dell’inerzia, ma l’ozio del pensare, perché siate liberi dai condizionamenti dello spazio e del tempo».
È il De vera religione 35,65: potrebbe essere un augurio davvero speciale per un periodo di stacco dalle fatiche quotidiane, che ci aiuti a rinnovarci.