Italia
Lavoro, rapporto-proposta Cei: «Serve una nuova cultura delle relazioni»
«Una società diventa eticamente civile nella misura in cui non solo non c’è umiliazione, ma tra chi dà e chi riceve lavoro c’è promozione reciproca», si legge nelle osservazioni conclusive del Rapporto. «Quando possiamo dire che il lavoro è per la persona umana?». «Quando l’attività lavorativa alimenta le relazioni che sviluppano le qualità propriamente umane degli individui nei loro contesti di vita», la risposta del volume. Il lavoro industriale classico, la denuncia del Rapporto, «ha spesso distrutto il tessuto sociale in cui l’industria si è inserita, si è via via burocratizzato, ha messo l’accento sul prodotto materiale anziché sulla qualità relazionale del prodotto stesso». Il «lavoro a dimensione umana», invece, è quello che «si assume le responsabilità sociali verso la comunità locale in cui opera, verso la famiglia di chi lavora, che è attento alla personalizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo». Il lavoro è umano, in altre parole, «perché opera attraverso le relazioni sociali e con le relazioni sociali, sia di chi lavora sia dai chi fruisce dei frutti del lavoro».
Anche se oggi le tecnologie «crescono a ritmo esponenziale», si registra «non una crescita della ricchezza ma un impoverimento complessivo del nostro Paese». Soprattutto, «diminuisce nella popolazione italiana la percentuale dei giovani ma aumenta contemporaneamente la disoccupazione giovanile». È uno dei tanti «paradossi» del lavoro presi in esame dal Rapporto-proposta sulla situazione italiana, elaborato dal Comitato Cei per il Progetto culturale. A segnalarlo è stato il cardinale Camillo Ruini, già presidente del citato Comitato. «L’Europa e forse tutto l’Occidente stanno rapidamente passando da una condizione di centralità nell’economia mondiale a una condizione che rimane rilevante ma non è più centrale», ha affermato il cardinale mettendo l’accento sul «progressivo declassamento» del nostro Continente, come «stimolo ad adeguarsi ai mutamenti, trovando in essi nuove opportunità di scambio e di sviluppo». Per il card. Ruini, si tratta di «una sfida assai impegnativa, che rimette in discussione parametri non solo economici ma sociali, culturali ed esistenziali che sembrano acquisiti una volta per tutte»: «Senza una vera disponibilità a mettersi in discussione – ha ammonito – temo che la sfida sarebbe perduta, con conseguenze estremamente pesanti».
«La crisi del lavoro è una crisi antropologica», per «sfuggire» alla quale, però, «non basta restituire valore teorico al lavoro», ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, che intervenendo alla presentazione del Rapporto-proposta della Cei sul lavoro ne ha condiviso l’impostazione di fondo e in particolare alcune proposte, come quelle di «liberare il mercato del lavoro» e «diversificare il concetto di produttività», intesa come «capacità di esaltare la dimensione di organizzazione del singolo sul lavoro». C’è poi la grande questione della «formazione legata al lavoro», che comprende la questione dell’apprendistato ma deve saper andare anche oltre. Analizzando la crisi del lavoro e il suo passaggio da quello che Hannah Arendt definiva la «glorificazione teorica del lavoro» a ciò che Rifkin teorizza come «la fine del lavoro», il sociologo ha fatto notare che negli ultimi sessant’anni abbiamo assistito ad una «molecorizzazione del sistema, ad una sua individualizzazione e soggettivizzazione». Una «identificazione», questa, «del singolo con il lavoro, e del lavoro con l’azienda», che, da una parte, «ha fatto grande l’Italia», ma dall’altra per De Rita «è avvenuta in modo spietato», lasciando il lavoratore «solo e senza alcun tipo di accompagnamento».