Vescovi Toscani

Lasciatevi riconciliare. Lettera per la Quaresima 2003 di mons. Luciano Giovannetti

Lettera per la Quaresima 2003 del vescovo di Fiesole Luciano Giovannetti

«Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».(2Cor 5,18-20) Carissimi fratelli e sorelle, l’annuncio della riconciliazione e della pace definitivamente ristabilita fra cielo e terra risuona al centro del mistero pasquale. Verso di esso ci conduce il sacro tempo della Quaresima, attraverso un itinerario di conver-sione e di rinnovata esperienza penitenziale. È Cristo stesso a rivolgerci questo accorato invito alla conversione e al pentimento: un invito che sembra apparire, nel nostro contesto culturale, non sempre gradito e accolto come potremmo attenderci.

Chiamandoci alla conversione, infatti, il Signore Gesù ci chiama a ri-conoscere la nostra condizione di fragilità e di peccato, a prendere atto del-la nostra umanità radicalmente bisognosa della sua grazia: «senza la tua forza – canta la sequenza di Pentecoste – nulla è nell’uomo, nulla senza colpa». Ma, come affermavo nella Lettera pastorale per l’Avvento 2002, e come ci è stato ampiamente illustrato durante l’ultimo corso diocesano di aggiornamento a Loppiano, una delle caratteristiche dell’uomo nuovo creato dai mezzi di comunicazione sociale è, spesso, proprio l’incapacità a ri-conoscersi limitato. Egli, infatti, è profondamente segnato da quell’individualismo radicale che rende i nostri contemporanei sempre più insofferenti nei confronti di qualsiasi discorso che metta in dubbio la loro autono-mia e le loro singole capacità.

Questo uomo mediatico e del tutto autosufficiente sembra non sentire il bisogno di ricevere il perdono e la riconciliazione da parte di Dio e non di rado potrà considerare superfluo se non addirittura offensivo l’invito che la Quaresima ci rivolge alla conversione. E se nessuno di noi può dire di riconoscersi in pieno in questo atteggiamento di indifferenza e di radicale au-tonomia nei confronti di Dio, questo non esclude il pericolo di esserne, in qualche modo, condizionati e influenzati. Fino a che punto, dunque, questo modello di uomo provoca oggi anche la mentalità dei cristiani, attraverso la presenza invasiva e pervasiva che i mezzi di comunicazione sociale stabili-scono nella nostra vita quotidiana? In che misura siamo consapevoli del nostro stato di fragilità e di frattura rispetto al progetto originario di Dio? Fino a che punto, in altre parole, riconosciamo l’assoluta unicità della salvezza portata da Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini?

È questo, in effetti, il senso dell’accorato appello della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi che ascoltiamo nella liturgia del Mercoledì delle Ceneri: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20.). Paolo non sta chiedendo di assumere un atteggiamento di benevolenza nei confronti di Cristo, quasi che l’efficacia dell’azione del Signore Gesù dipendesse dalla buona disposizione nei suoi confronti. L’appello di Paolo è assai più profondo e radicale: egli sta invitando i Corinzi – ma anche ognuno di noi – a riconoscere la nostra lontananza da Dio, il nostro stato di peccatori bisognosi della salvezza e dunque disposti ad aprirci all’amore di Dio manifestato in Cristo.

È l’appello di Dio risuonato già innumerevoli volte, nel corso della storia della salvezza, attraverso la predicazione dei profeti. È l’appello alla piena e definitiva riconciliazione che, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, Cristo stesso è venuto a rinnovare e a stabilire (Cfr. Eb 1,2.): con la venuta di Gesù, infatti, la promessa della nuova ed eterna alleanza si avvera, e la conversione non è più soltanto uno sforzo umano, ma la risposta al principio interiore dello Spirito donatoci dal Padre per mezzo del Figlio.

Il sacro tempo della Quaresima è allora un’occasione particolarmente preziosa per riscoprire il senso e il valore della nostra iniziazione cristiana, attraverso la quale ognuno di noi è stato inserito nella nuova creazione inaugurata da Cristo. Questa riscoperta è tanto più necessaria dal momento che il Battesimo non è un gesto magico, ma ha bisogno di essere costantemente alimentato e sviluppato, accogliendo in noi l’offerta di Cristo il quale «è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5,15).

Ci troviamo oggi davanti a una realtà sociale, culturale e spirituale che continua a inviare segnali contraddittori, in cui la pace e la giustizia restano ancora valori non universalmente riconosciuti, e dove anche la comunità cristiana sembra non riuscire a elaborare modelli di vita fedeli alla novità di Cristo. Non dobbiamo aver paura di riconoscere, in tutto questo, le dolorose conseguenze del peccato radicale, la cui natura più profonda sta preci-samente nell’opposizione a Dio e al suo progetto. È quanto suggerisce il racconto della disobbedienza dei progenitori narrata nel libro della Genesi: una separazione da Dio che dà origine, per sua stessa causa, a una drammatica separazione anche tra i due primi esseri umani, Adamo ed Eva, così come tra loro e il giardino in cui Dio li aveva collocati.

Tentando di individuare una possibile struttura all’interno di questo dinamismo del peccato, è possibile indicare quattro scismi che da sempre minacciano l’integrità del progetto originario di Dio: la separazione da Dio, da noi stessi, dai nostri fratelli e dal mondo. Scismi tra loro intimamente dipendenti, e per scongiurare i quali il Signore stesso ci ha insegnato a pregare con le parole del Padre nostro. L’invito paolino a lasciarci riconciliare con Dio ci interpella dunque in un cammino di riconciliazione ampio e globale, che vorrei ripercorrere sinteticamente con voi nei suoi quattro momenti, facendo di ognuno di essi, idealmente, una tappa degli «esercizi spirituali» della Quaresima di quest’anno.

Culmine e fonte di ogni esperienza di conversione e di ritorno a Dio è senza dubbio il sacramento della Riconciliazione, nel quale Cristo stesso viene in aiuto alla nostra debolezza e ci riconcilia con il Padre e con la Chiesa, ricreandoci come creature nuove nella forza dello Spirito Santo. Attraverso la penitenza, infatti, il sacramento della Riconciliazione riaccende in noi l’amore e ci riporta pienamente al Padre, che «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19), a Cristo, «che ha dato se stesso per noi» (Gal 2,20) e allo Spirito Santo, che è stato diffuso su di noi in abbondanza (Cfr. Tt 3,6). E poiché gli uomini sono uniti tra loro da uno stretto rapporto soprannaturale, in forza del quale il peccato di uno solo reca danno a tutti, così come a tutti porta beneficio la santità del singolo, la penitenza ha sempre come effetto anche la riconciliazione con i fratelli, grazie alla quale diveniamo autentici operatori di giustizia e di pace. È assai importante, allora, che i sacerdoti non si stanchino di educare i fedeli ad accostarsi regolarmente al sacramento della Riconciliazione, che si mettano a loro disposizione, specie durante il tempo di Quaresima, per facilitare la celebrazione del sacramento, e anche che diano spazio alla di-rezione spirituale, soprattutto dei più giovani, per illuminare e accompagnare il loro cammino di fede e la loro ricerca vocazionale. La chiamata di Dio, infatti, passa sempre attraverso un intenso itinerario di riconciliazione e di perdono, nel quale, sperimentando la forza dell’amore di Dio, siamo incoraggiati ad amare a nostra volta e a mettere la nostra vita a servizio di questo amore.1 Lasciatevi riconciliare con DioAlcuni anni fa, il regista polacco Krzysztof Kieslowski dedicò una serie di film alle dieci parole del Decalogo, cercando di rileggere l’attualità e la verità delle «parole di vita» consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai. Nel primo di questi film, che commentava il comandamento «non avrai altro Dio fuori di me» (Il Decalogo 1, Polonia 1990), Kieslowski mise in scena la vita di un ingegnere che aveva affidato lo scorrere della sua esistenza al controllo di un computer centrale, dal quale dipendevano tutte le necessità della casa, la sveglia, il riscaldamento. Quando si trattò di dare al figlio il permesso di pattinare sul lago ghiacciato davanti a casa, il protagonista fece calcolare al computer lo spessore del ghiaccio, ma, drammaticamente, la risposta fornita risultò erra-ta e il figlio morì. Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione paradossale, per molti aspetti anche provocatoria e un po’ riduttiva, dal momento che rischia di mettere in ombra le innegabili opportunità offerte dal progresso scientifico. E tuttavia, quella di Kieslowski è un’immagine che ben sintetizza la condi-zione dell’uomo contemporaneo, pienamente consapevole delle possibilità che gli sono offerte dallo sviluppo della scienza e della tecnologia e tentato, non di rado, di ridimensionare il ruolo di Dio nella propria vita. L’uomo contemporaneo, e non ultimi anche tanti che si professano cristiani, vive spesso come se Dio non esistesse. Il suo è un ateismo pratico, che non si spinge mai a negare l’esistenza di Dio a livello teorico, ma che di fatto la elimina attraverso uno stile di vita in cui Dio non trova più posto e in cui il problema religioso è relegato a pochi appuntamenti disseminati nel corso degli anni. In questo senso, l’appello di Paolo a riconciliarci con Dio è soprattutto un invito a fare nuovamente posto a questa presenza, a renderci conto che la distanza che spesso si stabilisce tra Dio e l’uomo, non è senza conseguenze per la nostra vita. L’ateismo dei nostri contemporanei, infatti, è solo apparentemente una prova di libertà e di autonomia, dal momento che si traduce sempre in forme disumane di idolatria e di dipendenza da idee e interessi che schiacciano la dignità della persona umana. È questo il senso ultimo del primo Comandamento: non avrai altro Dio fuori di me! Dio non pretende di essere l’esclusivo oggetto del nostro amore e della nostra fede perché è un Dio geloso e meschino, ma perché nessun altro fuori di Lui può darci la vera vita e la vera libertà. Fuori di Dio esistono solo l’idolatria e l’asservimento dell’uomo al potere, al denaro, al lusso, alla violenza. L’appello a lasciarci riconciliare con Dio è dunque invito a liberarci dagli idoli del nostro tempo attraverso la sequela radicale di Gesù Cristo, il testimone fedele di Dio. Seguire Cristo è la nostra vocazione, biblicamente potremmo addirittura dire la nostra sola opportunità. Rivolgendosi ai giovani durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Toronto, il papa parlava di un inganno che le nuove generazioni hanno subito da parte di tanti falsi maestri che hanno fatto credere loro che fosse possibile raggiungere la felicità anche rinunciando a un rapporto con Dio, e che, anzi, Dio non era altro che un concorrente nella ricerca della propria felicità: «Lo “spirito del mondo” – affermava il papa durante l’omelia – offre molte illusioni, molte parodie della felicità. Non vi è forse tenebra più fitta di quella che si insinua nell’animo dei giovani quando falsi profeti e-stinguono in essi la luce della fede, della speranza, dell’amore. Il raggiro più grande, la maggiore fonte di infelicità è l’illusione di trovare la vita facendo a meno di Dio, di raggiungere la libertà escludendo le verità morali e la responsabilità personale» (GIOVANNI PAOLO II, Omelia per la XVII Giornata Mondiale della Gioventù, Toronto, 28 luglio 2002, 2). Riconciliarsi con Dio significa, allora, riscoprire il vero volto di Dio e lasciare che questo volto ci sia rivelato in Cristo come volto di amore e di compassione, di consolazione e di pace. Come ricordavo nella Lettera pastorale per la Quaresima dell’anno scorso, Cristo è vivo e chiama personalmente ognuno di noi(Cfr. L. GIOVANNETTI, Cristiano dove sei? Lettera pastorale per la Quaresima 2002, 13 febbraio 2002). Egli ci interpella continuamente, ci invita a seguirlo, a fare l’esperienza di una rinnovata fiducia in lui: è quanto ci testi-moniano costantemente i santi, che in Cristo hanno trovato la risposta piena alle loro attese e alle loro domande. Penso, in particolare, a santa Teresa di Gesù Bambino, carmelitana scalza vissuta appena ventiquattro anni e che oggi la Chiesa venera tra i suoi Dottori: nel prossimo pellegrinaggio diocesano in Francia ci recheremo in visita presso la sua casa e il monastero dove ha vissuto, a Lisieux, e avremo occasione di conoscere da vicino la sua esperienza di santità, dalla quale emana il fascino irresistibile di un’esistenza interamente donata all’amore di Cristo.Cristo è vivo e interpella personalmente ognuno di noi: quanto avven-ne poco meno di duemila anni fa sulle rive del lago di Galilea, dove Gesù chiamò a sé i suoi primi discepoli, continua ad avvenire anche oggi in coloro che decidono nel loro cuore il santo viaggio, e si dispongono con generosità alla sequela radicale di Cristo. Per questo, occorre ripensare profondamente tutta la nostra attività pastorale in chiave vocazionale. Ogni cristiano è un chiamato e deve pensare alla propria esistenza cristiana in termini di vocazione, di assoluta disponibilità alla volontà di Dio nella sua vita, qualsiasi sia la sua età, la sua condizione, la sua maturità di fede. Dio non chiede mai qualcosa che superi le nostre forze, ma neppure lascia che tutto resti come prima. Egli ci guida verso forme sempre nuove e più esigenti di donazione: ai sacerdoti un rinnovato impegno spirituale e di preghiera che si traduca in forme nuove di evangelizzazione e di missione; ai consacrati e alle consacrate una maggiore generosità e apertura alle sfide del nostro tempo; alle famiglie un maggiore senso di responsabilità nel divenire sempre più luogo di formazione e di crescita delle future generazioni cristiane; ai giovani, infine, un invito a prendere in considerazione in modo non solo astratto o teorico la possibilità di consegnare la propria vita in una vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata. La comunità cristiana stessa non può che essere pensata e vissuta come comunità di chiamati, di convocati, che proprio in forza di questa chiamata inaugurano un nuovo stile di vita comunitario che diviene annuncio credibile e coinvolgente per coloro che vivono intorno a noi.Lasciarsi riconciliare con Dio significa, in conclusione, confessare la sua assoluta signoria sulla nostra vita, così come affermiamo nel Padre nostro quando preghiamo: «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Se, infatti, realmente si compie la volontà di Dio in cielo e in terra, se il suo progetto di salvezza trova piena accoglienza in noi, nella nostra obbedienza alla sua Parola, allora davvero inizia a ristabilirsi quella relazione di intimità e di confidenza tra Dio e l’uomo di cui Gesù stesso parla nel Vangelo di Giovanni: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).Un impegno pratico per la Quaresima in vista di questa prima riconciliazione potrebbe essere, anche in riferimento alle indicazioni del Piano pa-storale diocesano, una maggiore attenzione alla Parola di Dio, ottenuta dedicando più tempo alla lettura della Bibbia ed esaminando la nostra vita rispetto alle esigenze che Dio ci indica e allo spazio che egli vi occupa ogni giorno. Altrettanto importante il tempo che dedichiamo alla catechesi, e alla conoscenza sempre più profonda dei contenuti della nostra fede. Un momento particolarmente prezioso per la nostra crescita spirituale sono gli esercizi spirituali: un’esperienza che non dovrebbe mancare nella vita di ogni credente, attraverso la quale non solo si alimenta e consolida la nostra scelta di Dio, ma anche possiamo comprendere meglio la chiamata che egli ci rivolge. Il tempo di Quaresima è poi particolarmente propizio per acco-starsi in modo nuovamente consapevole e fiducioso al sacramento della riconciliazione, particolarmente nella forma della direzione spirituale.2 Lasciatevi riconciliare con voi stessi «La gloria di Dio è l’uomo vivente» esclamava Ireneo di Lione. E poteva dirlo proprio nella luce della rivelazione biblico-cristiana, nella quale l’uomo costituisce il vertice del progetto d’amore di Dio, il quale, come non si stancano di ripetere i profeti, «non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva». Un mistico contemporaneo raccontava un episodio occorso a Padre Pio, in uno dei tanti colloqui avuti con i pellegrini. Un giovane gli aveva detto: «Ebbene, padre, devo confessarle che sono venuto qui, trascinato da dei compagni. Non mi dispiace, ma devo dirle che non credo in Dio». A questa confessione, Padre Pio rispose: «Che importa, amico mio, Dio crede in te» (Cfr. M. ZUNDEL, Scintille, Ed. Paoline 1990, p. 143). Ed è proprio questa fede che Dio ha in noi a fare la differenza!Nel momento in cui interrompiamo la nostra relazione vitale con Dio, anche il rapporto con noi stessi risulta drammaticamente compromesso: è quanto già lasciava intendere l’affermazione del papa ai giovani di Toronto. In effetti, ci troviamo davanti a una situazione assai complessa: i mezzi di comunicazione sociale ci mostrano, infatti, modelli di persone apparente-mente felici e realizzate, mentre, da parte nostra, sentiamo di essere profondamente irriconciliati in noi stessi. Non ci rassegniamo al fatto che la nostra vita si è sviluppata diversamente da come avevamo progettato, non riusciamo ad accettarci, vorremmo essere diversi, più intelligenti, più piacevoli, più riusciti. Soprattutto, non riusciamo a farci una ragione del fatto di essere molto più fragili, deboli, limitati di quello che vorremmo. Si tratta di un pericolo che corrono particolarmente i giovani, i quali non facilmente riescono a leggere nella loro vita il disegno di un’amorevole volontà da parte di Dio. E tuttavia, è proprio questa vita che Dio ama e accoglie, ed è solo attraverso un’autentica riconciliazione con noi stessi, e cioè attraverso l’assenso dato alla storia della mia vita, al mio carattere, agli impedimenti e ai pesi che mi sono portato dietro, e che costituiscono la mia persona, che ognuno di noi può davvero aprirsi al mistero della chiamata di Dio nella propria vita. E questa prospettiva costituisce un’indicazione preziosa anche per il lavoro della nostra pastorale giovanile: dobbiamo incoraggiare i giovani a lasciare che sia Dio a illuminare la loro vita, senza la preoccupazione di renderla artificialmente presentabile. Dobbiamo esortarli a farlo entrare nel loro quotidiano, in modo che sia Cristo stesso a rivelare loro l’infinita bellezza del dono che è ogni singola vita umana. La vicenda biblica del profeta Elia è un’icona esemplare di questo cammino di riconciliazione dell’uomo con se stesso. La Scrittura, infatti, ce lo presenta, a un certo punto, disperato e deciso a lasciarsi morire per paura della persecuzione della regina Gezabele: «Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi… Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto il ginepro»(1Re, 19,3.4-5a.). Elia è in una prostrazione drammatica. La sua missione sembra essere fallita e tutte le prospettive sono venute meno. In realtà, egli dubita di se stesso perché dubita di Dio. Ma il Signore viene a visitarlo proprio in quell’ora, con una pedagogia che ha molto da insegnare anche a noi: «Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: “Alzati e mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: “Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb»(1Re, 19,5b-8). Dio non ricostruisce la fiducia di Elia in un colpo solo, ma giorno dopo giorno, analogamente a quanto aveva fatto con il popolo eletto nel deserto, nutrendolo ogni giorno con la manna: ed è nel cammino quotidiano che Elia torna a sperimentare l’amore e la presenza di Dio. Nessuno di noi, come Elia, è al riparo da questa profonda debolezza esistenziale, che ha le sue radici nelle nostre paure più profonde e tocca le corde più segrete della vita. Ma Dio conosce le tenebre del nostro cuore, e ci viene incontro con straordinaria bontà e delicatezza, non illuminandole tutte in una volta, ma poco a poco, giorno dopo giorno, e proprio con quel pane quotidiano che il Padre nostro ci fa chiedere, e che è lo stesso pane offerto a Elia dall’angelo: pane del cammino, pane per un giorno, per ogni giorno, farmaco dell’immortalità, come lo definisce sant’Ignazio di Antiochia con un evidente simbolismo eucaristico. Un pane che opera in noi quella guarigione e quella riconciliazione di noi con noi stessi che ci rende davvero uomini e donne liberi di aderire al progetto di Dio.Un impegno pratico per la Quaresima in vista di questa seconda riconciliazione potrà essere, allora, quello di accostarci più frequentemente, in questo periodo, alla celebrazione eucaristica, e di accettare da Dio ogni giorno il pane del cammino, riconoscendo di essere amati da Lui e di rivestire, ai suoi occhi, un valore immenso e insostituibile. In questo cammino verso la Pasqua, potrà accompagnarci la preghiera del Salmo 103, sublime inno alla benevolenza e alla misericordia di Dio verso di noi: «Egli perdona tutte le tue colpe, / guarisce tutte le tue malattie; / salva dalla fossa la tua vita, / ti corona di grazia e di misericordia; / egli sazia di beni i tuoi giorni / e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza» (Sal 103,3-5). 3 Lasciatevi riconciliare con gli altriCreato a immagine e somiglianza di un Dio che è comunione trinita-ria, l’uomo è chiamato a vivere nella comunione con i suoi simili. Per questo è stato creato, a questo sono orientate tutte le sue potenzialità spirituali, intellettuali e affettive. Ogni struttura di peccato, ogni durezza, ogni chiusu-ra che impedisca od ostacoli questa comunione, ostacola e ferisce, in realtà, la dignità stessa dell’essere umano. La comunione non è una delle tante forme nelle quali può esprimersi il nostro impegno cristiano: ne è via obbligata, la sola via attraverso la quale ci è dato essere veramente discepoli di un Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. È quanto abbiamo riflettuto e stiamo riflettendo in questi mesi attraverso le indicazioni del Piano pastorale diocesano, che ci ha invitati, quest’anno, a riflettere proprio intorno alla spiritualità di comunione e dun-que a mettere a fuoco le forme e i luoghi in cui è più urgente e vitale edificare e promuovere la comunione. «Il Dio Uno e Trino – vi si legge –, rivelatoci in Cristo come mistero di comunione e di amore interpersonale, chiama anche i credenti a partecipare e a vivere questo stesso mistero. La famiglia è il primo ambito in cui i cristiani sono impegnati a rispondere a questa chiamata. Se il Papa ci esorta a fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione, la famiglia, piccola Chiesa domestica, è la prima cellula in cui vivere ed educarsi a questa spiritualità» (DIOCESI DI FIESOLE, Promuovere una spiritualità di comunione. Piano pastorale 2002/2003, p. 11). La riconciliazione all’interno delle famiglie è una delle priorità del nostro impegno di credenti: la famiglia è immagine della comunione divina, e di questa comunione è chiamata ad alimentarsi e sostenersi. Essa deve risplendere prima di tutto nella coppia, in cui in modo essenziale e originario si rispecchia il progetto di comunione voluto da Dio: «i due saranno una carne sola» (Gn 2,24). È nella riconciliazione sperimentata dai genitori che i figli hanno diritto di trovare quel clima di serenità e di pace che è condizione indispensabile per la loro crescita umana e spirituale. La comunità cristiana tutta deve avere a cuore il dono prezioso della riconciliazione familiare, favorirlo con ogni mezzo, incoraggiarlo e farne oggetto costante della propria preghiera. La comunione familiare autenticamente vissuta si trasformerà in benedizione e in rinnovato entusiasmo per tutti. Nelle pagine della Bibbia è narrata forse una delle più toccanti storie di riconciliazione e di perdono. Ed è una storia che accade all’interno di una famiglia, nel cammino umano e spirituale dei dodici figli di Giacobbe. È la vicenda di Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli e poi divenuto l’uomo più potente d’Egitto, là dove i fratelli lo incontrano di nuovo, dopo esservi emigrati dalla Palestina a causa di una gravissima carestia. Attraverso uno stratagemma, e senza essersi fatto riconoscere, Giuseppe vorrebbe costringere i fratelli a tornare da Giacobbe senza il più piccolo di loro, Beniamino, prediletto dal padre. Ed è a quel punto che, finalmente, nel discorso del fratello maggiore Giuda, essi confessano la verità e scoprono il valore supremo della comunione, che cioè non è possibile tornare in pace dal padre se non tutti insieme (Cfr. Gn 44,18-34). Una vita chiama l’altra: al di là delle gelosie, delle invidie, del sospetto, essi sono fratelli, e non possono realizzare la loro vita se non insieme, se non tenendo conto l’uno dell’altro. Nella prospettiva cristiana, questo è ancora più vero e urgente: «non possiamo proclamare il credo del nostro Dio se non in questa coscienza radicale di sentirsi fratelli tra noi uomini. Noi professiamo un unico Dio Padre. Dunque tutti noi uomini siamo creati dall’amore dello stesso Padre. C’è allora questa esigenza fortissima di dover tornare davanti al volto del Signore con i fratelli. E ricercare i fratelli significa andare per le strade del mondo attraverso la logica pasquale fino al punto in cui ci si comprende e ci si sente parte di questa umanità che è come una catena: anzi, un anello, e questo anello si porta dietro tutti gli altri perché sono legati insieme» (M.I. RUPNIK, «Cerco i miei fratelli». Lectio divina su Giuseppe d’Egitto, Lipa 1998, p. 101). La storia di Giuseppe d’Egitto ci insegna anche che solo chi è profon-damente riconciliato con se stesso è in grado di riconciliare le persone che gli stanno intorno e che sono in conflitto tra loro. E che una vera riconciliazione non si può raggiungere stendendo un mantello di pietà su tutti i conflitti che ci circondano, tentando di armonizzarli senza affrontarli: Giuseppe non accusa i fratelli, né li giudica, ma vuole che la verità venga alla luce, perché è solo nella verità che può darsi l’esperienza del perdono, anche se questo richiede dolore e sofferenza. Come ha scritto recentemente papa Giovanni Paolo II, «il perdono è innanzitutto una scelta personale, una opzione del cuore che va contro l’istinto spontaneo di ripagare il male col male. Tale opzione ha il suo termine di confronto nell’amore di Dio, che ci accoglie nonostante il nostro peccato, e ha il suo modello supremo nel per-dono di Cristo che sulla croce ha pregato: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)» (GIOVANNI PAOLO II, Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Messaggio per la XXXV Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2002, n. 8). In effetti, «si perdona non in vista d’un cambiamento dell’altro, ma solo per seguire Cristo… La riconciliazione è una primavera del cuore. Sì, riconciliarsi senza tardare conduce a una scoperta stupefacente: il cambiamento del nostro stesso cuore» (FRÈRE ROGER, DI TAIZÉ, Amore di ogni amore. Le fonti di Taizé, Morcelliana-Elledici 1991, pp. 30.34). L’esperienza del perdono è un’esperienza che caratterizza e quasi identifica la comunità cristiana: comunità di uomini e donne che hanno ricevuto il perdono da parte di Dio e per questo, a loro volta, perdonano. Ne abbiamo un’icona nella nota parabola del servo malvagio, al quale il padrone ha condonato il debito, ma che non ha pietà del suo sottoposto (Cfr. Mt 18,23-35): analogamente, il nostro perdono reciproco non è una prestazione eccessiva che Gesù ci domanda, ma è espressione della riconoscenza per il perdono infinito che riceviamo da Dio. In realtà, e ne abbiamo prova in molti degli atteggiamenti che caratterizzano la società contemporanea, «senza perdono si ha soltanto un atteggiamento di calcolo reciproco, si ha un circolo vizioso di vendetta e risposta alla vendetta» (A. GRÜN, L’arte di perdonare, Ed. Messaggero di Padova 2001, p. 17). Senza perdono, non può esistere amore né può esistere una comunità familiare, parrocchiale o religiosa. Il perdono è la via maestra per uscire dai conflitti che non di rado segnano la vita delle nostre famiglie, delle nostre comunità religiose e parrocchiali: occorre divenire esperti nell’arte di perdonare e di lasciarsi perdonare, magari introducendo piccoli riti familiari o comunitari in cui questo perdono viene dato e ricevuto, in cui si chiede insieme a Dio nella preghiera la grazia di questo perdono che ci apre nuovi orizzonti di vita e di speranza. Senza perdono, difficoltà o incomprensioni anche piccole all’interno di una famiglia o di una comunità possono crescere fino a trasformarsi in ostacoli insormontabili. Il tempo di Quaresima è un momento particolarmente adatto per esercitarci nell’arte del perdono reciproco, e per farlo particolarmente nelle nostre famiglie. È sulla Croce, infatti, che Gesù ha definitivamente riconciliato a sé il mondo, riconciliando tra loro tutti gli opposti: il cielo e la terra, Dio e l’uomo, il bene e il male, gli ebrei e i greci, i signori e gli schiavi, i ricchi e i poveri, gli uomini e le donne, i giovani e i vecchi. Nel segno della Croce, dunque, anche noi possiamo imparare a perdonare e a farci perdonare, lasciando che la Croce segni tutti i conflitti e le tensioni che viviamo, e le trasformi in nuova solidarietà e amicizia. E questo è particolarmente urgente e necessario a livello intraecclesiale, nei rapporti tra comunità parrocchiali e gruppi, movimenti e associazioni, parrocchie e comunità religiose. Solo nella misura in cui è riconciliata al proprio interno, infatti, la comunità cristiana è anche chiamata a costruire rapporti di amicizia e di pacifica convivenza con le persone che vivono sul suo territorio: è questo il seme di riconciliazione e di perdono che dobbiamo diffondere intorno a noi, stabilendo relazioni di stima e di rispetto reciproco, collaborando attivamente per la costruzione di una società civile sempre più a misura d’uomo e offrendo il nostro generoso contributo di cittadini. Un modo tutto particolare per collaborare a questa missione di riconciliazione e di pace è certamente quello dell’attività e dell’impegno politico: la Politica è un campo di missione e di attenzione cui la comunità cristiana non può restare estranea sia a livello di conoscenza e di informazione, sia, per alcuni in par-ticolare, di impegno concreto e specifico. Come si legge nel nostro Piano pastorale, infatti, l’impegno politico «è una via eletta per la vocazione dei cristiani laici che desiderano offrire il proprio contributo alla costruzione di una convivenza pacifica e solidale… Campo delicato e che richiede specifiche competenze e professionalità, e nei confronti del quale la comunità cristiana deve mantenere uno sguardo di speranza e di sostegno, così come di vigilanza e di discernimento, facendone oggetto della propria riflessione e della propria preghiera» (DIOCESI DI FIESOLE, Promuovere una spiritualità di comunione. Piano pastorale 2002/2003, p. 31). Nella preghiera del Padre nostro, l’invocazione del perdono ha un tratto quasi paradossale: noi, infatti, chiediamo a Dio che egli rimetta i nostri debiti così come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Si tratta di una richiesta assai impegnativa, di cui forse non siamo pienamente consapevoli quando la ripetiamo quasi meccanicamente. E tuttavia, essa ci richiama con forza al fatto che la riconciliazione tra i fratelli non è un elemento secondario della vita cristiana: essa è, anzi, il fulcro di ogni azione missionaria ed evangelizzatrice, se è vero quanto narrano gli Atti degli apostoli a riguardo delle prime comunità cristiane, che attraevano più per l’esempio della loro comunione che per l’efficacia della predicazione.Un impegno pratico per la Quaresima in vista di questa terza riconci-liazione potrà essere, allora, quello di riscoprire l’esperienza della comunione interpersonale, coltivando il perdono reciproco nella famiglia, nelle comunità parrocchiali, nelle associazioni e facendo tesoro dell’avvertimento evangelico: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Analogamente, sarà opportuno compiere gesti di carità e di convivenza attraverso i quali testimoniare la pace e la riconciliazione anche verso i lontani.4 Lasciatevi riconciliare con il mondo Secondo il racconto della Genesi, l’ultima conseguenza del peccato dei progenitori fu la loro cacciata dal giardino di Dio, accompagnata da una serie di condanne che descrivono la frattura insanabile che si è ormai creata tra l’uomo e il mondo, l’uomo e il creato: «maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gn 3,17-19). In realtà, la fatica del lavoro, il dolore del parto e tutte le difficoltà che la vita ci presenta sono esperienze proprie dell’esistenza umana, divenute tuttavia inaccettabili e incomprensibili proprio in seguito dalla separazione tra Dio e l’uomo intervenuta con il peccato. La creazione è uscita «buona» dalle mani di Dio: essa è frutto dello Spirito che aleggiava sul caos ed è segnata dalla pace, dall’ordine e dall’armonia del tutto. È la disobbedienza del peccato, e particolarmente la violenza che ne è seguita – l’omicidio di Abele e l’inimicizia tra i popoli a Babele – a distruggere la pace e l’armonia della creazione così come Dio l’aveva voluta. Ed è proprio questa pace, questa ritrovata armonia della creazione che Cristo è venuto ad annunciare e stabilire, così come la proclama il manifesto programmatico del regno di Dio rappresentato dalle Beatitudini: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,6.9-10). Nel nuovo regno, i discepoli del Signore, coloro che opereranno in favore della pace e della giustizia, saranno beati, perfetti, belli, così come bella e buona era la creazione all’inizio: esiste una profonda relazione tra l’esclamazione di Dio nel prima capitolo della Genesi, «e vide che era cosa molto buona», e quel-la di Gesù, «Beati!». La riconciliazione dell’uomo con il mondo passa, dunque, per l’avvento della pace donata da Cristo, attraverso la quale si realizza anche l’armonia voluta da Dio fin dalle origini del mondo. Lo afferma con espressioni assai efficaci la Costituzione conciliare Gaudium et Spes quando ricorda che l’umanità «non potrà portare a compimento l’opera che l’attende, di costruire cioè un mondo più umano per tutti gli uomini e su tutta la terra, se gli uomini non si volgeranno tutti con animo rinnovato alla vera pace. Per questo motivo il messaggio evangelico, in armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano, risplende in questi nostri tempi di rinnovato fulgore quando proclama beati i promotori della pace, “perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Illustrando pertanto la vera e nobilissima concezione della pace, il Concilio, condannata l’inumanità della guerra, intende rivolgere un ardente appello ai cristiani, affinché con l’aiuto di Cristo, autore della pace, collaborino con tutti per stabilire tra gli uomini una pace fondata sulla giustizia e sull’amore e per apprestare i mezzi necessari per il suo raggiungimento» (CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7 dicembre 1965), n. 77). Fedele discepola di Gesù Cristo, la comunità cristiana ha dunque un compito particolarissimo, proprio in vista della riconciliazione dei popoli e del mondo intero: essere lievito di pace, di convivenza e di perdono, lievito di riconciliazione e fermento di novità e di creatività là dove le tensioni crescono e dove si presentano sfide nuove e inedite. Un compito che non esclude l’attenzione, oggi sempre più necessaria e irrinunciabile, nei con-fronti del problema ecologico. Come scriveva Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata della Pace del 1990, «l’impegno del credente per un ambiente sano nasce direttamente dalla sua fede in Dio creatore, dalla valutazione degli effetti del peccato originale e dei peccati personali e dalla cer-tezza di essere stato redento da Cristo. Il rispetto per la vita e per la dignità della persona umana include anche il rispetto e la cura del creato, che è chiamato ad unirsi all’uomo per glorificare Dio». E aggiungeva, facendo riferimento proprio alla prospettiva della pace nella quale abbiamo inteso in-serire la nostra riflessione: da san Francesco Assisi, patrono degli ecologisti, «ci viene la testimonianza che, essendo in pace con Dio, possiamo meglio dedicarci a costruire la pace con tutto il creato, la quale è inseparabile dalla pace tra i popoli» (GIOVANNI PAOLO II, Pace con Dio creatore. Pace con tutto il creato. Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 1990, n. 16). Nella preghiera del Padre nostro vi è un riferimento del tutto particolare al compito instancabile di riconciliazione dell’uomo con il mondo, ed è contenuto nell’ultima invocazione, quella nella quale chiediamo a Dio di non permettere che soccombiamo alla tentazione, e che egli piuttosto ci liberi dal male. Alla pace pensata da Dio fin dall’inizio per la sua creazione si oppone, nella storia, l’opera del peccato, dalla quale nasce ogni forma di violenza e di distruzione dell’armonia originaria. Lo aveva compreso profondamente san Paolo quando scriveva nella sua lettera ai Romani che «la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21). Chiedere dunque a Dio di essere liberati dal male significa af-frettare la piena rivelazione della gloria nascosta da sempre nel cuore della storia e che avrà pieno compimento alla fine dei tempi. La bellezza e l’armonia della storia e del mondo, così come della stessa creazione, non sono senza legami con la santità e la comunione che la comunità cristiana costruisce al proprio interno. Se infatti il peccato e il male corrompono il mondo, il bene e la carità lo edificano e lo preparano al definitivo incontro con Gesù Cristo, senso e fine della storia umana (Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, cit., n. 45.).Un impegno pratico per la Quaresima in vista di questa quarta e ultima riconciliazione potrà essere, allora, quello di lavorare con generosità e costanza in favore della pace: potremo farlo dando testimonianza sia con gesti e segni visibili così come abbiamo fatto in occasione della recente giornata di preghiera e digiuno in favore della pace (19 febbraio 2003), sia, soprattutto, con la testimonianza della nostra vita quotidiana, e con la visibilità credibile e convincente delle nostre opere di giustizia e di pace. Non sarà superfluo anche prenderci cura della bellezza e della bontà del creato, facendo sì che cresca e si diffonda nella comunità cristiana anche una viva sensibilità per l’urgenza della sfida ecologica. Carissimi fratelli e sorelle, come afferma l’apostolo Paolo, a noi è affidato il ministero così urgente e impegnativo della riconciliazione. Se la morte di Cristo ha già operato definitivamente la riconciliazione dell’umanità con Dio, questo non esclude la necessità della risposta umana e della nostra cooperazione. È indispensabile, dunque, il nostro impegno quotidiano in vista della riconciliazione, intesa nel senso ampio e globale che ho cercato di mostrare. Accogliamo allora con slancio l’invito di Paolo a farci ministri della riconciliazione, a diffondere il lievito della pace e della solidarietà nel territorio in cui viviamo e che attende dalla comunità cristiana una testimonianza di fede e di generosità. Gesti concreti di riconciliazione, di fraternità e di pace potranno rappresentare l’espressione visibile della nostra Quaresima di carità, accompagnati da una costante e vigile preghiera in favore della pace. È quanto torna a chiederci lo stesso papa Giovanni Paolo II nella sua lettera dedicata al Rosario, quando afferma che «riscoprire il Rosario significa immergersi nella contemplazione del mistero di Colui che “è la nostra pace” avendo fatto “dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia” (Ef 2,14). Non si può quindi recitare il Rosario senza sentirsi coinvolti in un preciso impegno di servizio alla pace, con una particolare attenzione alla terra di Gesù, ancora così prova-ta, e tanto cara al cuore cristiano» (GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, 16 ottobre 2002, n. 6).Al termine di questa riflessione, facciamo nostre le parole della seconda Preghiera eucaristica della Riconciliazione, particolarmente adatta, insieme alla prima, per il tempo liturgico della Quaresima: Riconosciamo il tuo amore di Padre quando pieghi la durezza dell’uomo, e in un mondo lacerato da lotte e discordie lo rendi disponibile alla riconciliazione. Con la forza dello Spirito tu agisci nell’intimo dei cuori, perché i nemici si aprano al dialogo, gli avversari si stringano la mano e i popoli si incontrino nella concordia.Per tuo dono, o Padre,la ricerca sincera della pace estingue le contese,l’amore vince l’odioe la vendetta è disarmata dal perdono» (MESSALE ROMANO, Preghiera eucaristica della riconciliazione II, Prefazio). Augurando a tutti e a ognuno un fruttuoso cammino quaresimale e una Santa Pasqua nel Signore, Crocifisso e Risorto, vi benedico di cuore. + Luciano, vescovoFiesole, 5 marzo 2003Mercoledì delle Ceneri