Opinioni & Commenti

L’«antipolitica»? Ha molte ragioni, ma non ha ragione

di Franco Vaccari

La chiamano antipolitica. Dicono che sta crescendo. Qualcuno ne è contento, qualcuno preoccupato. Qualcuno finge di esserlo, ma in realtà non è mai stato bene come adesso, perché proprio dall’antipolitica ci guadagna. Poi ci sono i soliti distratti che pensano di non esserne toccati. Antipolitica riguarda tutto ciò che è contro la politica, che la nega mostrandone gli aspetti deteriori e reali, con insistenza e enfasi. Vive fuori dalla politica, come se questa potesse non esserci, anzi la giudica come il concentrato di ogni male e accredita una tale definizione con la forza dell’evidenza. Se la politica è «l’umana coesistenza considerata dal punto di vista delle modalità di organizzazione di un coerente e stabile potere» – Enciclopedia del pensiero politico (Laterza) –, allora l’antipolitica è tutto ciò che si oppone alle forme di organizzazione del potere. È forza innovativa, radicalmente alternativa, con forti spinte distruttive. In alcuni momenti è strisciante, in altri conclamata. Quando il sentire diffuso corrisponde all’impossibilità di un qualsiasi cambiamento, o addirittura, come sostiene Lidia Campagnano, «alla impossibilità di scelta, vale a dire perdita del diritto di essere di sinistra o di destra, pur con tutte le sfumature centriste del caso e della contingenza, allora la reazione può essere collerica».

L’antipolitica non è nuova, specie in Italia. Ciclicamente cresce, trovando consenso facile. Andate in un bar e cominciate a lamentarvi della politica, snocciolate frasi sulla necessità di distruggere Montecitorio, di togliere gli stipendi ai politici, siano essi assessori, sindaci, ministri: avrete un consenso pressoché unanime. L’antipolitica è seducente più che persuasiva. Infatti tocca emozioni, ma non espone argomenti. Ha delle ragioni – forse molte ragioni – ma non ha ragione. Parla alla pancia della gente e non arriva mai alla testa. Il massimo della sua astuzia sta del far credere di parlare alla testa mentre la dissolve.Dall’antica Roma ai giorni nostri tribuni più o meno improvvisati catturano l’attenzione, tengono banco, fanno l’ordine del giorno per i molti che li ascoltano. Cavalcare l’antipolitica in certi momenti paga. Anche in termini di consenso elettorale. Conosciamo già le democrazie involute in sistemi autoritari con tanto di voto nel segreto dell’urna.

E allora? Inchiodati tra uno stato di cose oggettivamente grave (la difficoltà della politica a fare il suo mestiere: governare) e un disagio crescente, manifestato in forme rischiose, che fare? Già Pansa, tempo addietro, si domandava intorno ai fatti italiani dell’ultimo decennio del secolo scorso: «Era antipolitica, quella? O invece, come penso, la denuncia onesta di un cancro che aveva già cominciato a divorare?». È proprio qui la domanda che si deve porre l’intelligenza: se i plebisciti, gli unanimismi, le acclamazioni, gli umori popolari che si trasformano in movimenti di massa non sono praticabili, che fare? Una domanda che può trovare risposta non nel clamore della piazza, ma nell’interiorità della coscienza illuminata da un buon ragionare. Andare contro la politica è come andare contro noi stessi. Occorre cambiare la politica, non negarla.

Se il sentimento è che la classe politica fa schifo, ebbene la politica ha bisogno di chi ha schifo di lei. Chi sente questo schifo, in origine, non è né qualunquista né sfascista. Ha semplicemente delle ragioni che vanno ascoltate. Se la crisi della politica genera, tra gli altri, il sentimento di essere scippati della democrazia, allora c’è solo una via: uscire allo scoperto, mettersi in gioco, assumersi la responsabilità che compete.

Davanti alle crisi più acute e drammatiche sempre ci è testimoniato che la rabbia si può trasformare in impegno civile.

Da che parte stare? Perché il punto è che la democrazia viene ereditata, ma non è ereditaria. Il dono della democrazia (costato sangue!), per essere accolto necessita di un nuovo impegno, dell’esercizio della responsabilità. Chi pensa così, opera, contesta, grida, ma sempre costruisce. Perché orienta la propria azione a una concreta verifica che sta appunto in una palpabile crescita civile. Nell’epoca in cui si torna sulle tombe dei grandi per attingere forza d’impegno politico, cerchiamo di non dar ragione ancora una volta all’adagio popolare «il morto si rivolta nella tomba!». Sia invece il segno, da lì in poi, che compiere quel gesto onora, sia con le parole che con i fatti, la presenza di quella persona che non c’è più.