Cultura & Società
L’antico mito della «lingua degli uccelli»
di Carlo Lapucci
In realtà una credenza popolare diffusa vuole che gli uccelli parlino tra loro e quelli che noi riteniamo canti siano invece loro conversazioni. Di fatto sono gli unici animali capaci di pronunciare una parola umana, ma pare che il loro linguaggio sia da interpretare come lingua completamente diversa dalla nostra. Nella tradizione marchigiana, toscana, umbra, romagnola si trova sovente il motivo di favole nelle quali l’eroe viene a conoscenza della lingua degli uccelli e, ascoltando le loro conversazioni, conosce tutto, tutto prevede, per cui arriva a sposare la figlia del re e procurarsi una buona sistemazione a corte. Si dice anche che chi impara la lingua degli uccelli sia destinato ad essere re o papa.
Pitrè riferisce una fiaba siciliana, di probabile provenienza araba, con questo tema, però nella saga nordica dei Nibelunghi Sigfrido, bevendo una goccia del sangue del drago Fafner che ha ucciso, comprende immediatamente la lingua misteriosa e un uccello ha addirittura una parte nel Sigfried di Wagner.
Dietro di noi il paganesimo aveva istituzionalizzato l’arte di vaticinare attraverso gli uccelli. Gli àuguri erano appunto i sacerdoti che si occupavano di trarre questi auspici, inizialmente dal volo e dal canto degli uccelli, poi l’indagine si fece anche attraverso i tuoni, i lampi, le eclissi, le comete e altro.
Questa materia è collegata all’arte divinatoria, nella quale da noi furono maestri gli Etruschi, tanto che l’aruspicina era detta etrusca disciplina. Alla religione etrusca si fa risalire l’origine di tale pratica, in particolare a Tarconte al quale sarebbero state fatte le rivelazioni fondamentali della religione etrusca dal dio Tagete che balzò dal solco tracciato da un contadino a Tarquinia. Con il corpo di fanciullo e il volto di vecchio, apparve, visse e scomparve in un solo giorno durante il quale lasciò i suoi insegnamenti che furono trascritti poi nei Libri Aruspicini.
Aulo Gellio, nelle Notti attiche (IX, 12), riferisce che si attribuiva a Democrito la teoria che certi uccelli hanno la propria lingua e parlano tra loro. Inoltre insegna che, mescolando il loro sangue, si genera un serpente, mangiando il quale si arriva a comprendere le parole degli alati. Plinio nella Storia naturale (X, 70), ricorda Melampo, mitico indovino che dava i suoi vaticini tolti dalla lingua degli uccelli. Anche in questo caso furono i serpenti, da lui allevati, che, leccandogli le orecchie, vi infusero la virtù di conoscere il linguaggio degli animali. Il collegamento magico tra il serpente e l’uccello è rivelato nella nostra fiaba col suo percorso costante: la forma che più frequentemente assumono le fate è quella della serpe.
Melampo, forte di questa abilità, se ne servì in molte divertenti occasioni, come quando chiese ai tarli, che rodevano le travi della sua stanza, se ne avevano ancora per molto: sentendo che stavano per finire il lavoro, uscì e si salvò dal crollo per miracolo. Ma il colpo grosso lo fece salvando la solita figlia del solito re (Preto si chiamava), sistemandosi benino.
Si tocca così la connessione col sacro di questa strana credenza, diffusa sia pure in modo diverso in una grande quantità di popoli. Che gli uccelli siano messaggeri di Dio in senso proprio lo si è creduto in epoche arcaiche, ma sia pure a distanza di millenni la cosa ha lasciato il suo segno, anzi, quasi alle soglie della nostra epoca si è trasformata prendendo forme sempre più fantastiche ed evanescenti, entrando nelle dicerie, nelle favole, nelle superstizioni che impediscono di cacciare e uccidere certe specie, mettendone altre sotto il patrocinio di divinità come è per noi la rondine protetta dalla Vergine. Questo ha tenuto viva la suggestione che gli uccelli, più delle altre creature, sapessero del mistero del mondo, comprendessero la nostra vita meglio di noi e comunicassero con la loro voce cose che qualcuno riusciva a carpire. Del resto figure diversissime ne hanno subito il fascino: da San Francesco che parla loro come a esseri umani, a Leopardi che scrive l’elogio degli uccelli, per non ricordare Cristo che li addita come esempio, come i fiori.
Che la Terza persona della SS. Trinità compaia nel Vangelo sotto forma di colomba non è un caso, mentre si va perdendo la nostra cognizione del passato e dei messaggi che ci ha lasciato. Ad esempio l’immagine assai comune degli uccelli che bevono a una fontana passa dai mosaici bizantini toccando tutte le epoche, ma un tempo era intuitivo che sì, era simbolo delle anime che s’abbeverano alla verità, ma era altresì pacifica l’allusione che la fontana, soprattutto se aveva tre getti, era l’immagine di Dio e gli uccelli che ne ascoltavano la voce erano le anima umane. Infatti lo spazio sacro del giardino, soprattutto il chiostro, aveva al centro la fontana, il cui mormorio era segno della voce divina, sia per la nostra che per la tradizione islamica.
Una credenza comune, semplice, che ha lasciato una traccia anche nel linguaggio (confidare nella propria buona stella), affonda le sue radici nella notte dei tempi e si presenta ancor oggi molto diffusa: che ogni vita umana sia legata a una stella e da questa dipenda la sorte buona o cattiva secondo che sia benevola o malevola. Essendo considerato il cielo stellato nient’altro che l’esercito di Dio schierato a battaglia (cosmos) è naturale l’identificazione delle stelle con gli angeli e come queste detengono i decreti della volontà divina, gli angeli l’attuano sulla terra e tra gli uomini.
In realtà, come accenna R. Guénon, (La lingua degli uccelli in «Simboli della scienza sacra», Adelphi, Milano 1975, pag. 56), questa credenza sposta l’origine in tempi remotissimi, quando gli uccelli furono visti come messaggeri degli dèi e i loro canti furono presi per parole e, siccome i canti degli uccelli sono di solito belli, l’uomo pensò che in alto ascoltassero la voce di Dio e quaggiù ripetessero le sue parole. Dunque gli uccelli, abitatori del cielo, alati e canori, hanno molto a che fare simbolicamente con gli angeli, che sono appunto i nunzi e gli esecutori della volontà di Dio sulla terra: Tobia, le piaghe d’Egitto, l’annuncio alla Vergine e altri episodi.
Il motivo della lingua degli uccelli è molto diffuso nelle fiabe, e anche in quelle toscane. La presenza di uno stesso tema in molte aree linguistiche di diversa civiltà o tradizione di solito è segno che all’origine esiste un elemento forte, quale potrebbe essere appunto il fatto religioso o mitologico che abbiamo indicato. Possiamo dire che tale mito è universale perché si trova in Africa in Cina e in molte tradizioni orientali.
Per fare qualche esempio relativamente all’area toscana questo motivo si trova a Pisa nella fiaba L’uccellino che parla (Comparetti 117-24); a Firenze, nella stessa fiaba raccolta dall’Imbriani (La novellaia fiorentina, 81-93); in molte località si trova ne L’uccel-bel-vede che è una fiaba assai diffusa; a Pratovecchio ne La gazza (G. Pitrè Novelle popolari toscane I, 63, pagg. 324-5); ne L’usignolo e i suoi ammaestramenti (Palazzi, Enciclopedia della fiaba, pag. 389) e l’assai nota Capra ferrata.
L’uccello parlante nelle fiabe viene a prendere il posto del vecchio saggio che all’inizio della sua avventura indica al protagonista i pericoli, gl’inganni ai quali andrà incontro, ovvero gli fornisce mezzi o stratagemmi per evitarli. Questo lo pone, sia pure nelle veste dimessa dell’animale, nella metamorfosi di un essere superiore, ovvero nel messaggero del destino o d’una forza sovrumana. Infatti la capacità di parlare si trova estesa poi anche agli animali in genere che dialogano con gli uomini che ne hanno la facoltà. Nelle Fiabe e leggende popolari siciliane del Pitrè vi è una narrazione nella quale Cristo concede a un uomo di intendere questa lingua con il divieto di rivelarlo ad alcuno, pena la perdita di tale potere. Così anche in una leggenda abruzzese.
Tra le popolazioni del mare ha una particolare importanza il gabbiano. Una credenza assai diffusa vuole che i gabbiani non siano uccelli, ma anime di marinai annegati con qualche debito col cielo, condannati a vagare sul mare per cento anni, dopo i quali saranno giudicati da Dio. Per antica usanza le donne quando vedono passare i gabbiani che vanno verso il mare affidano loro messaggi da portare ai loro mariti che navigano in acque lontane, certe che gli uccelli sapranno ispirare le loro parole nella mente dei propri cari. Le vedove un tempo si recavano sulle scogliere per chiedere quale sia stato il destino dei loro sposi dispersi nelle onde, credendo d’intendere le risposte nel gracidare dei gabbiani e nel suono della risacca.
Molte leggende cristiane di santi riferiscono di uccelli con i quali questi intrattennero colloqui e rapporti, o ne furono alimentati e soccorsi, anche per lungo tempo. San Benedetto addirittura, come racconta San Gregorio Magno, dava ogni giorno nella sua cella da mangiare a un corvo che obbediva ai suoi comandi e un giorno, senza neppure assaggiarlo, si accorse che un pane era avvelenato e lo portò dove nessuno avrebbe potuto toccarlo. Altri narrano che sia stato proprio il corvo ad avvertire il santo del pericolo, ma fu sempre un corvo a indicargli la strada mentre andava verso Montecassino a fondare il suo convento.
Di San Paolo eremita si racconta che, ritiratosi nel deserto per fuggire le tentazioni, abitò in una spelonca solitaria dove nessuno mai passava. Per tutto il tempo che visse un corvo giungeva a volo all’ora del pasto a portargli un pane e il Santo poté così dedicarsi allo studio e alla preghiera, senza la necessità di procurarsi il cibo. Ora, un giorno andò Sant’Antonio a visitarlo e l’eremita non sapeva cosa mettere in tavola, ma all’ora consueta, il corvo giunse portando due pani invece di uno, per sfamare anche l’ospite.
Lo schema di questa leggenda si trova nell’Antico Testamento: di Elia profeta si narra che un corvo gli portò per tutto il tempo che rimase nello speco di Carith, un pane che lo sfamò (III Libro dei Re, XVII, 6). La stessa cosa si racconta oltre che di San Paolo eremita, anche di altri Santi e di San Rocco si narra che questo fu fatto da un cane.
Non è quindi un caso che Noè abbia fatto uscire dall’Arca dopo il Diluvio, due uccelli destinati a portare l’annuncio della fine del Diluvio, prima il corvo, che non tornò, fermandosi a mangiare una carogna d’asino (Genesi VIII, 6) e poi la colomba.
Per una strana logica indecifrabile del mondo la civiltà industriale, invece di aver allontanato gli uccelli dalla nostra vita come ha fatto degli altri animali, li ha avvicinati. Infatti la caccia e l’agricoltura, coi fertilizzanti, i diserbanti, le bonifiche e la soppressione di corsi d’acqua e di zone umide, allontanano i poveri uccelli dalle campagne e dai boschi spingendoli sempre più dentro le città, dove pian piano si ambientano, si familiarizzano, si adattano trovando non solo una relativa pace nei parchi, nei viali, nei giardini, lungo i fiumi dove nessuno li prende a fucilate, ma trovano anche di che alimentarsi. E così, forse anche attraverso di loro, arriva a noi talvolta flebile e dolce l’antica voce di Dio.
A noi restano, di tutta questa illustre e fascinosa tradizione, oltre alle favole, le briciole che quasi nessuno ormai scopre nascoste come sono nella simbologia e nell’iconografia del passato. Nessuno fa caso ad esempio che nella rappresentazione degli antichi di solito ogni divinità appariva accompagnata dall’uccello che le era sacro: Giove con l’aquila, Atena con la civetta, Venere con i passeri, Giunone con la colomba e così gli altri.
Assai diffusa è la diceria che il canto della civetta porti guai, quello dell’usignolo amore, quello dell’allodola gioia, quello della rondine appena giunta dal mare reca pace e serenità, quello del cuculo danaro se, la prima volta che si sente a primavera, si ha l’accortezza di mettere la mano in tasca e toccare una moneta.
Tuttavia, tutto quello che vola, siccome qualcosa con il cielo ha a che fare, è capace di rivelare l’arcano. Il volo del moscone annuncia una visita, quello della vespa una novità, quello del pipistrello che entra in una casa vi porta discordia, poca allegria portano il canto dei gufi e delle cornacchie: ma si vuole che questa facoltà tali animali le abbiano avuta dal diavolo.
Curiosamente l’espressione lingua degli uccelli indicò in alchimia un sistema di procedere nella ricerca attraverso analogie ed equivalenze fonetiche nella convinzione che le parole abbiano delle connessioni segrete che si attivano attraverso i suoni.
Consiste nell’aggiungere alla fine d’ogni sillaba, più o meno rigorosamente identificata, i suffissi: -gasà, -ghesé, -ghisì, -gosò, -gusù, ripetendo la vocale della sillaba stessa. Una frase come: Gigi ha mangiato la mela, diventa: Gighisì gighisì hagasà mangasà giagasà togosò lagasà meghesé lagasà.
Così si usa raccontare una semplice storia con altri inserimenti precostituiti e variabili secondo le sillabe, come La storia della vecchia inecchia buffecchia, Il Vecieto nareto buffeto o Lu Re-befè-viscotta-e-minnè.